lunedì 2 novembre 2015


Concorso Nazionale di Poesia "Liburni Arte" 2015

Premio speciale per la mia poesia "Livorno dell'acqua" che traduce in parole sentimenti e ricordi della mia infanzia. Ringrazio la giuria per questo riconoscimento.

Una poesia scritta tanti anni fa e già pubblicata nella raccolta "Salsedine" con lo pseudonimo di Lea Stacchi nel 2011.
 




domenica 25 ottobre 2015

24 ottobre 1917 Caporetto 24 ottobre 1918 Vittorio Veneto

Centenario 1^ Guerra Mondiale 1915 - 1918

24 ottobre 1917 Caporetto
24 ottobre 1918 Vittorio Veneto



Dopo la battaglia della Bainsizza l'Alto Comando Austro -Ungarico chiese all'alleato tedesco l'aiuto per una offensiva di alleggerimento che costringesse gli italiani ad arretrare. Il Comando tedesco rendendosi conto della necessità di impedire il crollo degli austriaci rispose alla richiesta inviando la XIV armata con 7 divisioni, artiglierie, e i mezzi necessari, purché questi fossero poi ritirati e resi disponibili per la preparazione dell'offensiva sul fronte occidentale nella primavera del '18.
Nel 1917 i tedeschi avevano messo a punto una strategia che giocava sulla sorpresa tattica, sulla neutralizzazione delle comunicazioni tra le truppe e il comando e sulla infiltrazione nelle trincee nemiche.
Il 24 ottobre 1917 gli Austriaci e le sette divisioni tedesche sfondarono le linee italiane nel pressi di Caporetto (oggi la slovena Kobarid)  penetrando in profondità per centocinquanta chilometri. Gli ordini per la ritirata generale furono preparati la sera del 25 , sospesi poi sperando in un recupero, e quindi emanati definitivamente nella notte tra il 26 e il 27.
Lo sfondamento del fronte provocò la rotta disordinata di centinaia di migliaia di soldati insieme a colonne di profughi con i pochi beni che erano riusciti a recuperare caricati sui carri, mentre gli austro tedeschi facevano un grande bottino in armi, materiali, e prigionieri.
La linea  del fronte italiano prima spostatasi sul Tagliamento si attestò sul Piave dove fu opposta strenua resistenza riuscendo a contenere l'espansione austro tedesca.

Cadorna, capo di stato maggiore, scaricò subito la responsabilità della sconfitta; la mattina del 25 telegrafò a Roma la notizia secondo cui i reparti avevano abbandonato le posizioni senza difenderle e il 27 comunicava al presidente del consiglio Boselli che l'esercito era caduto non a causa del nemico esterno ma di quello interno, parlo di viltà dei militari, di disfattisti sostenuti  da socialisti e cattolici. In realtà, come venne appurato, le responsabilità erano attribuibili al comando di stato maggiore, alla mancanza nel coordinamento e nella direzione delle manovre, alla gestione unicamente repressiva di Cadorna verso le truppe, ed anche alle rivalità personali tra i generali.
Ecco come la vicenda venne vissuta dal soldato di cavalleria Anchise Breschi livornese, classe 1895, uno fra i tanti militari fatti prigionieri dagli austriaci a Caporetto ed abbandonato poi al destino dal Governo di Roma in uno dei campi di prigionia, fino al termine del conflitto, come risulta dal suo racconto di quei giorni, ritrovato dal figlio.
"Da radio - gavetta, circolava voce che il fronte avesse ceduto sull'Isonzo, ma non avevamo idea di cosa veramente stesse accadendo. C'era molta agitazione al Comando di Reggimento. La mia squadra ricevette l'ordine di partire immediatamente e pattugliare il ponte di Livenza, passaggio obbligato per un'eventuale ritirata delle truppe. Ricordo che ci mettemmo in marcia con i cavalli, al piccolo trotto. Pioveva già dalla mattina ed ero bagnato fin dalle ossa, mentre il cavallo si scoteva inquieto" si legge negli appunti. E ancora: "Mano a mano che avanzavamo, s'udiva sempre più distinto ed insistente il rumore delle cannonate. Qui si mette male pensavo. Quando infine giungemmo a poca distanza dal ponte, sul fiume, ci rendemmo conto della gravità della situazione. Una vera fiumana di soldati e civili si riversava dal ponte verso la piana, una confusione indescrivibile di rumori, nella quale si perdevano le voci di comandi all'ordine da parte d'alcuni ufficiali. Non sapevamo cosa fare. Arginare quella fiumana di fuggiaschi era impossibile. I cavalli erano agitati e faticavamo a controllarli. Anche il caporale che ci guidava non sapeva quale decisione prendere… Sentimmo improvvisamente come dei latrati, prima lontani, poi sempre più vicini. Erano le voci rauche di comando degli Austriaci che si stavano avvicinando. Dunque, eravamo in trappola."

Anchise come gli altri fatti prigionieri venne dimenticato nei campi d prigionia, perché il comando italiano, a differenza di quello francese, non ritenne di far arrivare i pacchi di viveri, i rifornimenti, che sarebbero stati necessari alla sopravvivenza, visto che il nemico che li teneva prigionieri non ne aveva a sufficienza per le sue truppe. In più, doppia delusione, quando tornarono ebbero l'accoglienza che si riserva a chi “ha peccato contro la patria” (D'Annunzio). La propaganda si occupò della prigionia solo per ribadirne il carattere disonorante. “Il disastro di Caporetto, in cui 280.000 soldati caddero nelle mani del nemico, suggellò questa riprovazione: la responsabilità della disfatta era di chi si era arreso senza combattere o peggio aveva tradito”.

La disfatta ebbe gravi conseguenze sul governo e sul Comando supremo e Cadorna venne sostituito con il generale Armando Diaz.
Ma la minaccia di invasione era concreta ed anche i socialisti riformisti Turati e Treves esortarono alla resistenza, distaccandosi da ogni ipotesi di interpretazione eversiva della rotta di Caporetto.
Per far fronte alle perdite umane venne chiamata la leva del 1899.
La difesa sul monte Grappa e sul Piave, con limitati aiuti franco britannici, impedì che l'irruzione austro tedesca si estendesse alla Pianura Padana e nei mesi successivi l'esercito imperiale andò incontro ad un crollo su tutti i fronti.
Il 24 ottobre del 1918 il generale Diaz ordinò a Vittorio Veneto l'offensiva generale che ne provocò la definitiva disfatta; il 4 novembre emanò il “bollettino della vittoria” che “venne riprodotto in migliaia di lapidi e imparato a memoria da due generazioni di studenti”.
La situazione nelle terre invase dopo la rotta di Caporetto è testimoniata dai documenti dei protagonisti di questa vicenda, come nel diario attribuibile alla maestra di Follina: “Continuo e denso passaggio di truppe o carriaggi austriaci e germanici sotto una pioggia dirotta… Cominciano le depredazioni e la rapina dei viveri e d'altra roba nelle case abbandonate e anche in quelle abitate. Alle prime ore del mattino due soldati germanici sfondano la porta dell'ufficio postale per prendere una bicicletta che era all'interno. In poche ore vengono portate vie le biciclette, i cavalli, i rotabili di ogni genere. Le case dei contadini in specie dove si trova ancora il raccolto dell'annata, sono completamente saccheggiate. Mucche, maiali, pecore, granoturco, frumento, patate, vino, biancheria, vestiti, tutto, tutto è buono, tutto serve, di tutto si ruba.”

Elio Nerucci giovane pistoiese chiamato alla guerra a ventisei anni rende nelle pagine del suo diario viva testimonianza di quei giorni di sofferenza, smarrimento, in cui soldati e popolazione dovettero affrontare l'emergenza della lotta per la vita, quando ogni regola e quotidianità viene travolta dalla brutalità degli eventi. Eppure nelle pagine di quel quadernino in cui Elio ha trascritto le sue impressioni in lingua talvolta sgrammaticata e a cui la figlia ha provveduto a conferire una stesura omogenea, si avverte che insieme allo stupore, alla costernazione, c’è un comune sentire con la  partecipazione al dolore degli altri; i vincoli umanitari legano gli attori di quella grande tragedia  dando  vita ad un corale grido di dolore.



Alcuni brani del diario:
“Nei giorni ventitré e ventiquattro e nella notte del venticinque, il nemico aumentò il tiro di distruzione e logoramento. Tanto che c'era un sibilo continuo seguito da un rullo tambureggiante di colpi di cannone di ogni calibro. Noi si rispondeva solo con qualche colpo. In lontananza sentivamo, sulla nostra sinistra, che infuriava una gran battaglia con spari di mitraglia e fucileria… Il giorno venticinque, alle undici, venne l'ordine di prepararci per spostarsi da quelle posizioni.
Il ventisette il nostro comandante credé inopportuno fare resistenza, perché eravamo minacciati di accerchiamento. Alle undici ci giunse ordine di rimetterci in marcia. Ci diedero un po' di riso cotto nell'acqua e un po' di Torigiana. Alle dodici si ripartì e ci fecero fare marcia indietro sulla via che avevamo fatto il giorno prima. Camminando fino a sera inoltrata, si passò da tanti paesi. E la folla di borghesi piangeva al nostro passaggio, perché il nemico non avrebbe tardato tanto ad arrivare alle loro case. I signori erano già scappati quasi tutti. Ma la povera gente, senza mezzi di trasporto, doveva restare lì e aspettare la sorte che gli toccava. Erano fanciulli, donne, vecchi, costernati dal dolore per l'invasione tedesca.
Ma la nostra triste storia non ci dava sosta. Alle due del mattino venne l'ordine di rimettersi di nuovo in marcia per andare ancora indietro e portarsi aldilà del Tagliamento. Ma soprattutto per non farsi prendere prigionieri. Partimmo sotto una fitta pioggia che in poche ore rese le nostre vesti zuppe d'acqua.
Ma io mi sentivo così giù di forze, che mi ero accorto che non potevo andare più avanti. A rimanere lì mi dispiaceva lasciare gli amici: e poi restare nelle mani del nemico! Ma la fortuna mi volle assistere. In quel momento così triste si avvicinò un bambino. Mi guardò e mi disse: "Vi sentite male soldato?". Io lo guardai e gli risposi: "Puteo -in dialetto- ho tanta fame". Quel bambino partì a corsa avanti a noi. Dopo trecento metri si riavvicinò e mi diede un bel pezzo di pane alla contadina. Non potei trattenere le lacrime. Lo presi in braccio, lo baciai e gli dissi: "Tu mi hai salvato la vita. Sei stato tanto bravo. Il Dio ti darà sempre fortuna!". Di tanto in tanto davo un morso a quel pane e una bevuta nelle fosse lungo la strada. L'acqua non mancava, perché pioveva a dirotto. Era gialla, ma la sete è brutta.
… Si venne pochi chilometri sopra Schio. Ci colpì la Spagnola . Morirono molti ufficiali, tanto che una sera il colonnello mi mandò a Schio, nella stanza mortuaria, a portare due candele. Fra i tanti morti c'era il tenente Niccolai di Pisa, del mio reggimento. Ma ormai io avevo salvato la vita.
...Nel gennaio si partì da Schio e a forza di marce si rientrò a Livorno. A tutte le tappe che si faceva alto ci avevano preparato grandi feste. Si fece tappa pure a Pistoia e Montecatini. Sulla salita della strada che porta a Collodi, ci si fermò per due ore: sigarette, da bere, paste e panini imbottiti. Vicino a Lucca balli in molte case. Poi a Livorno un gran ricevimento e banchetto. Non pensavo mai però che finita la guerra il quattro novembre, a causa del Tribunale militare, avrei dovuto restare ancora sotto le armi fino al sedici agosto 1919. Alla fine non ho avuto né medaglia al valore, né pacco vestiario e nemmeno premi di congedo solo per aver avuto la scapataggine di scrivere quella lettera  senza alcun fine di male. Spero che almeno la croce al merito mi verrà concessa.
Questo non è un romanzo, ma il racconto della vita che trascorsi dal diciassette agosto 1916 al sedici agosto 1919.Elio Nerucci”



I reduci sperimentarono il senso di estraneità, il non poter condividere  l’esperienza di morte vissuta al fronte per l’impossibilità di tradurre in forme efficaci l’orrore della guerra. Sono forse certi dipinti in cui la realtà irrompe senza mediazioni, che meglio arrivano a comunicare in modo più immediato la carneficina della guerra e l’indifferenza della comunità ai dolori di chi l’ha sofferta.

Note:

 http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2014/11/05/news/cosi-mi-travolse-la-disfatta-di-caporetto-diario-di-anchise-soldato-livornese-1.10246432

 M. Isenghi – G. Rochat, La Grande Guerra, il Mulino, 2008

 Follina. dal diario della maestra A. Calcinoni sabato 10 novembre 1917, in http://www.14-18.it/diario/Ms_11_5_001

 Elio Nerucci, Pinocchio in trincea – diario di un soldato toscano nella grande guerra, in:.http://www.nove.firenze.it/, “Nel tempo che mi trovavo a quel servizio scrissi una lettera alla famiglia. Gli dicevo che non stessero in pensiero, perché ero al sicuro (tanto per farli stare contenti) e in un punto della lettera spiegavo il servizio che facevo con le segnalazioni. Senza pensare al danno che potevo fare, mi venne detto che quando lanciavo un razzo con tre stelle verdi, le nostre artiglierie facevano fuoco. Quando la lettera passò alla censura, per la scapataggine di quella frase mi denunciarono al Tribunale di guerra.”


Paola Ceccotti



mercoledì 23 settembre 2015

AGOSTINO E IL MISTERO DELL’ANELLO

Paola Ceccotti 





LIBRO PER RAGAZZI


ILLUSTRAZIONI DI ALICE BARBIERI











Prologo


Correva l’anno 1765
Agostino si era trovato a passare dalla città di Liburnia accompagnando il proprio padrino, e zio, che doveva andare a trattare da un vecchio mercante giudeo certe mercanzie provenienti dall’oriente.
Liburnia a quei tempi era famosa per gli stabilimenti di lavorazione delle pietre dure, smalti e alabastri, per le fabbriche di corallo, per le relazioni commerciali che facevano arrivare da paesi lontani tessuti pregiati e preziosi gioielli per importanti famiglie.
Per Agostino era  il primo viaggio che lo portava lontano da casa.










Prima parte

Agostino e i segreti di Liburnia



















I
L’arrivo a Liburnia

Agostino e lo zio Giovanni erano partiti da giorni e giorni, un mese quasi,  soffermandosi in alcuni borghi conosciuti dallo zio che vi aveva fatto buoni acquisiti.
Avevano attraversato strade e sentieri che talvolta si inoltravano nei boschi inerpicandosi in anguste salite e scendendo in ripidi pendii senza che si vedesse anima viva se non qualche solitario viandante o mercanti che come loro erano in cammino per affari. Viaggiavano a cavallo seguiti da un carro portato da due loro fidi dipendenti sul quale sarebbero state caricate le mercanzie e dove avevano sistemato alcuni bauli che contenevano oggetti necessari come indumenti, calze, mantelle, e guide con indicazioni di viaggio, e anche un’arma da fuoco corta per difesa personale se ce ne fosse stato bisogno, perché si sa che briganti e avventurieri di ogni tipo erano un pericolo che minacciava i viaggiatori. Percorrendo vie che già anticamente i pellegrini avevano attraversato nel loro viaggio verso i luoghi di culto cristiano, Agostino aveva visto per la prima volta  nuovi paesi e gente diversa e il desiderio di conoscere lo aveva in parte ripagato della stanchezza e del disagio.  Finalmente lo zio  gli aveva detto che erano vicini a Liburnia, c’era soltanto da superare la zona malsana che circondava a nord la città. Vi erano paludi, fossi, acquitrini, e dovevano stare attenti che le ruote del carro non si impantanassero. Attraversarono ben sette ponti poi si trovarono nella macchia di Tombolello,  lì lo zio lo avvertì di stare in guardia perché era un posto frequentato da bande di balordi che avevano abbandonato la vita civile e campavano di furti e aggressioni ai danni dei poveri uomini dabbene.  Dopo Tombolello decisero che il carro con i guidatori si sarebbe fermato prima, presso una locanda dalle parti di Calambrone che apparteneva ad  un parente dei due,  dove avrebbero aspettato gli ordini per il carico.
Giovanni e Agostino presero un po’ delle loro cose e proseguirono da soli percorrendo la strada che dalla chiesa di S. Stefano si congiunge alla via delle Cateratte. Superarono un ponticello che la univa ai nuovi quartieri sugli isolotti che stavano cominciando a sorgere e arrivarono alla darsena. Liburnia, città di mare e di commercio, era davanti a loro, indaffarata e gremita di gente.
Alla loro vista grandi imbarcazioni si stagliavano imponenti sulle onde del mare che rilucevano attraversate dai raggi di sole. Agostino si lasciò sfuggire una espressione di meraviglia. Il cielo era sgombro di nubi, il sole stava percorrendo la curva discendente verso la linea dell’orizzonte dove avrebbe finito la sua corsa tuffandosi nel mare ancora mosso da cavalloni, strascico del vento di libeccio, ma ancora così  forte da far sobbalzare le barche e i vascelli ancorati a riva. L’aria rinfrescata dalla brezza marina  carezzava dolcemente la pelle, una sensazione del tutto nuova per Agostino.
 “Guarda zio, non avevo mai visto uno spettacolo così, il mare, immenso, lontano laggiù – disse come estasiato indicando l’orizzonte - … chissà cosa ci sarà dall’altra parte, altri mondi e altre genti…” .
 “In verità, non credo – rispose lo zio che non amava quella inclinazione del nipote a prendere il volo con la fantasia, riportandolo bruscamente a considerazioni più concrete – che l’uomo sia poi così tanto diverso a seconda del posto dove si trova a nascere, sicuramente laggiù, al di là del mare, ci saranno paesi dove ci sono uomini, donne, che nascono, lavorano, vivono e muoiono proprio come qui, anche se hanno abitudini diverse e parlano lingue a noi sconosciute, e come noi ci saranno mercanti che per lavorare devono sopportare le fatiche e fare sacrifici”. Camminarono ancora per le strade della città e arrivarono nella piazza Grande, che grande lo era per davvero, certo più di ogni altra vista prima, dal Palazzo della Comunità si apriva uno grande spazio attraversato da persone, calessi, cavalli , che arrivava fino alla cattedrale. Da lì partiva la strada principale che da una parte si congiungeva alla darsena, dall’altra si prolungava fino ai bastioni che separavano la città dalla campagna. Agostino era frastornato da tanta confusione di voci diverse, una specie di Babele, gente dalla pelle chi chiara e chi scura affaccendata e rumorosa   che accendeva la piazza del colore degli abiti  sgargianti e delle grida e schiamazzi di venditori e ragazzi chiassosi. C’erano bambini cenciosi che strillavano aggrappati alle lunghe gonne delle madri, trafficanti che attiravano la clientela mostrando la mercanzia, mendicanti seduti per terra che chiedevano con una litania lamentosa a chi passava qualche soldo. Si notavano anche personaggi  esotici e stravaganti, per i ricchi abiti con cui erano abbigliati, abiti damascati  dai colori accesi, verde brillante come le foglie bagnate dalla rugiada, rosso intenso come il sole al tramonto in certe magiche giornate, giallo luminoso come i cespugli delle ginestre. Si diffondeva nell’aria una mescolanza di odori, quello acre proveniente dalle bestie che nella piazza si trovavano in attesa delle trattative dei padroni  (cavalli, asini, galline…), quello delle verdure in mostra nei vicini banchi al mercato, insieme all’intenso aroma di spezie e profumi che ricordavano l’Oriente al di là del mare, eppure così vicino.
Agostino, confuso da tutto quel movimento, si sentiva sbalordito e con lo sguardo cercava quello dello zio come ad avere una guida sicura, ma quasi inconsapevolmente la sua attenzione veniva catturata dalle donne, la cui esuberanza, particolarmente nelle più giovani, era al limite della sfrontatezza, ed esplodeva nelle forme sinuose e nei prosperosi seni che appena si intravedevano dalle vesti scollate. Sopra le gonne portavano ampi grembiuli dai vivaci colori legati da nastri, in testa la pezzola ed alcune, sopra a questa, un grande cappello. Al collo tante erano adornate con un vezzo di grani d’oro con un ciondolo in filigrana, o una crocetta, chi invece portava una collana di corallo. Avevano l’aria di muoversi come regine, e con i bambini aggrappati alle vesti e i panieri sulla testa con portamento altero attraversavano la piazza. Alcune erano indaffarate ad acquistare dagli ambulanti che stazionavano nella piazza il cibo necessario a sfamare quelle bocche rapaci, altre con brocche andavano alla fontana a prendere acqua, altre erano a gruppi di due o tre e conversavano amabilmente scambiandosi i saluti. Insieme a questo frastuono intorno fervevano i preparativi per la festa in onore di sua Maestà Serenissima Granduca di Toscana, e i manovali si muovevano nella piazza a montare impalcature, strutture dove si sarebbero svolti i tornei, le gare in onore del Granduca. I vascelli di Guerra del Granduca avevano inalberato per la prima volta a Liburnia la nuova bandiera del Paviglione Toscano formato da tre strisce, la prima e l’ultima rossa, quella di mezzo bianca con in mezzo raffigurato lo stemma d’armi del Granducato. Oltre la via Maestra, la via principale, nello specchio d’acqua antistante, si innalzava maestosa la Fortezza Vecchia su cui per la prima volta era stato issato il Paviglione.
Agostino e lo zio, stanchi, sporchi e sudati per il lungo viaggio, chiedevano informazioni a chi passava sulle locande aperte nelle vicinanze, per trovare un alloggio per la notte, ma sembrava che tutte fossero al completo. Rasentando il fosso Santa Trinita erano infine arrivati all’Osteria dei Tre Mori situata nel vicolo che dalla Crocetta mette in via Sant’Anna, avventurandosi in una zona remota e solinga del peggior quartiere della città dove una persona perbene non può mettere piede al sopraggiungere della notte senza il rischio di essere assalito da delinquenti, con pericolo di essere sventrato. E dove anche di giorno c’era grande probabilità, quasi una certezza, di essere derubato di orologio, borsa, o qualsiasi altra cosa. L’Osteria dei tre Mori aveva una piccola insegna e una particolarità,  la porta invece di essere verticale era orizzontale alla via e consisteva in una apertura quadrata della larghezza di due braccia con un coperchio che alzandosi come una grande scatola lasciava intravedere i sottostanti scalini di una scala tortuosa e scura che conduceva alla prima sala della locanda, in realtà quasi una cantina. Agostino e lo zio, spinti dalla curiosità, decisero di seguire le persone che vedevano entrare. Si ritrovarono in una stanza senza palco, nera e umida, con il soffitto a volta. Quelli che li avevano preceduti erano già spariti, non si capiva dove. Entrarono nella seconda sala. Questa, da cui si dipartivano altre due uscite, era arredata, per così dire, con tavolacci e panche, ma anche qui non c’era nessuno, passarono in una della stanze comunicanti, completamente deserta, dove erano sistemati dei pagliericci. Vi si vedevano tre bodole che mettevano in anditi sotterranei destinati a ricevere il frutto della “busca”, nome con cui veniva chiamato a Liburnia il furto giornaliero praticato da certi bricconi a danno dei poveri sfortunati forestieri. Naturalmente zio e nipote non erano a conoscenza di queste abitudini altrimenti avrebbero velocemente cercato l’uscita. “C’è nessuno?” gridò Giovanni senza avere risposta. Si diressero verso l’ultima stanza, da cui provenivano delle voci. Si fermarono un attimo sulla soglia, sorpresi nel vedere che finalmente avevano scoperto presenze umane, che stavano indaffarate alla preparazione delle consumazioni. Questa sala era adibita a cucina, in un gran pentolone sul fuoco di un grande camino bolliva un brodo di dentice insieme a peperoni rossi e cannella e accanto in padella friggevano i totani, mentre la cuoca ne stava asciugando con il lino e infarinando altri.

La cuoca era una giovane donna di circa vent’anni, assai prosperosa, con i capelli neri raccolti in una treccia che le scendeva lungo la schiena, in cui stava infilato uno spillo con manico di rame dorato, il collo e le braccia nudi erano ornati da collane e braccialetti di grosso corallo rosso. Ella aveva un corsetto ricamato ad arabeschi e le spalle coperte con una pezzuola di seta allora detta delle Indie, di color rosa con fiori minuti. La gonnella era alla caviglia e faceva notare le scarpette scure, sopra a tutto teneva un grembiule di seta verde.
La giovane di nome Concetta, come la stava chiamando l’aiutante, appena li vide ebbe un trasalimento per l’inaspettata presenza, così affaccendata dietro alla cucina. Giovanni chiese se c’era da dormire ma la ragazza riprendendosi dal soprassalto rispose che era tutto occupato, potevano però ristorarsi mangiando un po’ di quello che stava cucinando. Si sedettero ad uno dei quattro tavoli disposti a due a due nella attigua sala da pranzo dietro la cucina. Potevano finalmente riprendersi dalle fatiche del viaggio e dalla fame che li attanagliava alla bocca dello stomaco. Intanto l’ambiente si era popolato di alcuni tipi che avevano l’aria di essere uomini di mare dai calzoni corti e colorati, e la pelle bruciata dal sole e dal vento, in particolare uno pareva quasi di casa, si era avvicinato a Concetta con una certa familiarità. Era basso di statura ma di struttura atletica, coi capelli neri e ricci, quasi arruffati, il colorito vivace, rendeva l’idea di una persona esuberante. Concetta cercava di allontanarlo così per celia, dicendo che aveva da fare e non era perdigiorno come lui, che continuava invece, divertendosi, a stuzzicarla. Il pranzo riuscì a saziarli essendo abbondante e gustoso.

Al tavolo insieme a loro si era seduto un vecchio, silenzioso e mal vestito, mangiava con il capo chino sul piatto. Ne approfittarono per chiedere se conosceva  locande nelle vicinanze che avrebbero potuto ospitarli, accorgendosi però quasi subito anche dagli ammiccamenti dei presenti che era solo un povero ubriacone, uno dei tanti straccioni di cui erano popolate le strade, che vivevano di elemosina e carità, come quella che faceva Concetta ogni giorno offrendogli un pasto caldo. Uscendo, un uomo che aveva sentito la loro richiesta, si avvicinò con modi garbati. “Buona gente, se cercate un alloggio so io dove portarvi, qui vicino c’è la locanda di mio cugino, un posto sicuro, dove si mangia bene, si dorme senza timore di avere sorprese e si spende il giusto”, disse ridendo. Era un uomo di circa quarant’anni, di pelo fulvo, con capelli, barba e baffi, che formavano come un unico groviglio da cui spuntavano due occhi azzurri piccoli e vivaci. Giovanni aveva trovato la proposta assai gradita e decise di accogliere l’offerta presentandosi a quell’uomo che gli ispirava una istintiva fiducia. “Mi chiamo Giovanni e questo è mio nipote, siamo qui per commercio ma non pensavamo davvero di trovare tutto questo frastuono, tutte le locande sono al completo, se ne conoscete una libera vi seguiremo, basta che sia frequentata da gente onesta e tranquilla”.

“Dove vi porto è un posto familiare, dove non troverete filibustieri, non temete, garantisco io, mi presento sono Marco Tirabaldi consigliere anziano di questa città e tutta questa confusione in giro si deve ai preparativi per la festa in onore del Granduca, non vi spaventate Liburnia e in tempi normali un po’ meno caotica ”. Si diressero quindi verso quell’osteria che non era molto distante, si trovava in via della Voltina, tra la via Carraia e via della Venezia. Si chiamava “Croce di Malta” ed era esercitata da Monsù Beppe, vecchio marinaio  a riposo, che la gestiva insieme alla figlia, Maria giovane donna che aveva cura del buon andamento della attività. “La locanda è rinomata perché ci sono stanze per dormire pulite e con confortevoli giacigli, e la sera si possono gustare saporite zuppe di pesce, conosciute nei dintorni come una vera specialità e inoltre il prezzo non è eccessivo, per un mese intero si chiede appena 1 ducato”. Entrarono nella taverna, che ad un primo impatto apparve buia e fumosa,  con gli occhi sgranati per abituarsi all’oscurità tanto le stanze erano tenute nella penombra, subito contrattarono il prezzo per il pernottamento felici di aver finalmente trovato un alloggio, quindi dopo aver salutato e ringraziato la loro guida, salirono per una stretta e sconnessa scala al piano superiore dove, attraverso un ballatoio, si arrivava ad alcuni locali posti in fila uno all’altro. Entrarono nella stanzetta accompagnati dal ragazzo che lavorava per l’oste che si pose al loro servizio nel caso avessero bisogno di qualcosa, Giovanni gli dette una piccola mancia e lo congedò. La stanza era piccola con una finestrina dirimpetto alla porta di ingresso che si affacciava sul retrostante canale, dove c’erano ai lati due pagliericci, grossi sacchi gonfi di paglia e foglie secche, sui quali si sdraiarono immediatamente dopo aver gettato le loro bisacce per terra, scivolandovi sopra, nel fruscio dell’imbottitura.
I due si addormentarono come sassi, tanta era la stanchezza, svegliandosi dopo circa un’ora per il gran baccano che proveniva da fuori.
...

lunedì 14 settembre 2015

BeatlesVenerdì 11 settembre si è aperta la manifestazione a Castagneto Carducci "Whit The Beatles"

Con i Mercatini Vintage e la presentazione della mostra   In My Secret Life" a cura di Massimo Cotto presso il Teatro Roma

13settembre 2015 di Paola Ceccotti

Lo spettacolo della Banda Bim Bum Band ha p20150911_194017 - Copiaroposto brani musicali lungo il percorso dei vicoli dello splendido borgo medievale, che sorge con il vicino Castello Della Gherardesca tra le armoniose colline coltivate a viti e olivi.

Quasi un tuffo nel passato; dalle strette stradine, dalle terrazze affacciate sulla campagna circostante, si aprono allo sguardo ampi scorci di vedute che si perdono nel verde fino a costeggiare l'azzurro del mare.I visitatori, molti di cui stranieri, hanno accompagnato il gruppo musicale Bada Bim Bum Band fino alla piazza Belvedere, dove ha concluso la sua esibizione tra gli applausi.

Bella la mostra dal titolo "In my secret life", mutuato da Leonard Cohen, un progetto avviato e curato dal giornalista Massimo Cotto, che negli anni ha raccolto dipinti, disegni, tecniche miste, sculture, caricature, litografie, schizzi, oggetti, divertissement da lui acquistati o a lui donati, tutti realizzati da personaggi del mondo dello spettacolo.  

20150911_203159Una collezione privata, in continuo ampliamento, che è diventata itinerante ed ha esposto a Bard (Aosta), Asti, Genova, Firenze, Milano. I musicisti sono stati chiamati a esprimere la loro creatività con strumenti altri da quelli delle note musicali e si sono messi in gioco con risultati diversi, testimoniando e mettendo in mostra la propria più intima identità, rivelando estro ma anche fragilità nascoste. Questo a significare che la creatività è una disposizione, una necessità di espressione della persona nella sua unità che si esteriorizza in una forma tramite l'utilizzo di prediletti strumenti tecnici che l'artista sceglie secondo le sue personali attitudini, ma che possono variare nei vari contesti e momenti della vita.

L'espressione creativa 20150911_202759consente alla ricchezza interiore di uscire dalle pareti della individualità, e con la comunicazione che il mezzo offre, di essere socializzata e divenire disponibile a tutti. Musica, arti figurative, scrittura, tutte modalità di espressione relative ad una medesima fonte creativa: l'artista.

Canali attraverso cui le d20150911_201908inamiche interne si concretizzano con gratificazione di chi fruisce del prodotto creativo e dell'artista medesimo che riesce nel suo intento di conferire un contenuto concreto alle proprie fantasie, ai propri stati d'animo, i quali proiettati in una dimensione collettiva condivisa diventano attributi generali della umanità.

domenica 23 agosto 2015








Ringrazio la Giuria del Concorso per questo gradito riconoscimento 



Premio Letterario Anselmo Spiga 2015

 1^ Classificata nella sezione prosa italiana

domenica 26 luglio 2015

Appunti di viaggio
La mia vacanza in Grecia 

La mia vacanza in Grecia ha coinciso con il momento di punta della crisi dell’economia greca, all’indomani del referendum che si è espresso con il sostegno alla linea di Tsipras.
Avevamo fissato il noleggio di una vettura per una settimana e sbarcati a Salonicco con il volo economico della Rayan,  abbiamo viaggiato a sud e a nord della città e nella penisola Calcidica visitando luoghi storici, archeologici ma anche località balneari, mercati e supermercati.
Siamo così entrati in contatto oltre che con le bellezze di luoghi incantati,  con la gente comune. Persone cordiali e ben disposte verso “gli italiani”. Gente qualsiasi, comune, mi piace sottolinearlo, gente incontrata mentre lavorava o che si trovava a godersi una pausa sulla spiaggia. Sempre con il sorriso, ben disposta ma mai invadente, allo stesso tempo discreta e ospitale. 
Siamo sulla spiaggia di Peira, frequentata dagli abitanti di Salonicco, dopo un bel bagno ci concediamo  un pranzo al ristorante con i tavolini appoggiati sulla spiaggia di fronte al mare e dove spira una sottilissima appena percettibile brezza, che comunque riesce a ristorare dalla calura che preme senza tregua. Mastichiamo poco l’inglese e per niente il greco e quindi non riusciamo a comprendere bene il menu, diciamo quindi al cameriere, parzialmente a cenni, che vorremmo lo stesso piatto che ha portato ad una coppia seduta al tavolo vicino a noi, più o meno della nostra stessa età. Il commensale vicino sentendosi chiamato in causa si alza per salutarci e offrirci qualcosa delle sue pietanze, un mollusco fritto, dei funghi impastellati. Poi ordina al cameriere  un’altra caraffa di vino per noi, e non ci sono versi di rifiutare. Quindi ci dice, con frasi in cui italiano greco inglese si incontrano in uno sforzo sovrumano di comunicazione, che è felice che siamo lì perché gli italiani sono amici dei greci, non come i tedeschi – parole sue – perché la Merkel  si vuol comprare la Grecia, e poi  si comprerà l’Italia, il Portogallo, la Spagna, e poi – aggiunge – possiamo bere tranquillamente perché  la Merkel ha tagliato i fondi per la polizia e di sicuro non ci arresteranno. Quando la coppia finisce di pranzare ci saluta con una calorosa stretta di mano. Noi, nonostante la rassicurazione che la polizia non fa i controlli, non finiamo il vino dato che quello che abbiamo bevuto è già sufficiente a farci sentire un po’ “spaesati”.

Alla ricerca di luoghi interessanti non abbiamo trascurato le classiche maratone sotto  il sole a 40° nei siti archeologici – Pella, Vergina – e la visita ai Musei.
Ci troviamo al Museo Archeologico e della Macedonia di Salonicco, siamo affascinati dagli oggetti esposti nelle teche; gli splendidi manufatti, la ricercata fattura dei monili  e l’ingegnosa cura nella lavorazione delle piccole suppellettili stupiscono per la loro maestria. La nostra attenzione si focalizza poi sulle monete, antichissime ma in buono stato di conservazione, della Magna Grecia, di fattura finissima e pregevole. Il Personale, tutte donne, ci osserva, al momento di uscire una di loro ci chiede sorridendo se siamo italiani e se veniamo dal meridione, considerando che in quanto ammiratori così entusiasti di oggetti che appartengono alla storia del sud Italia dovevamo essere di quelle zone. Sono tre donne, e si chiamano tutte Elena  - non è un caso visto dove ci troviamo- e quella che ci ha interpellato parla perfettamente l’italiano. Ci spiega che ha amici in Italia e ha passato nel nostro paese alcuni mesi a periodi intermittenti. Noi le diciamo che siamo di Livorno e capisce che siamo del nord Italia. Commenta la situazione politica della Grecia dicendo che gli italiani sono molto graditi, l’Italia è un paese dove si è trovata bene e noi non per piaggeria confermiamo il nostro gradimento per il suo paese. Elena annuisce dicendo che, a parte l’attuale congiuntura economica, il suo è un paese dove si vive bene, la vita è rilassata, ai greci piace la vita tranquilla, divertirsi e stare in buona compagnia.  Ci salutiamo affabilmente; è un piacere trovare persone così piacevoli in un paese straniero.


La mattina dopo alla ricerca di un bar per la colazione ci troviamo davanti ad un outlet, vicino al nostro albergo, è nuovo e ci sono negozi non ancora aperti o in fase di apertura,  decidiamo di farci una visita. Come è di prassi faccio una capatina al bagno, in quel momento deserto, apro la porta e dall’altra parte qualcuno la spinge di fretta. “Oh, che paura!” dico istintivamente sul semiserio, e l’altra: “Mi dispiace”, “Niente” rispondo. Razionalizzo dopo che è italiana e poi proseguo con mio marito la visita dei negozi.
Mentre usciamo dal Grande Magazzino la incontriamo di nuovo mentre è sulla porta, ci vede e torna indietro, ci presentiamo, si chiama Emiliana. Ci mettiamo a parlare, è una giovane e graziosa donna sui trent’anni, figlia di architetti, nata a Milano e trasferitasi in Grecia da vent’anni svolge come i genitori la professione di architetto. Si trova bene e si capisce da come ne parla che quella è la sua seconda patria e la ama molto, anche se torna ogni tanto in Italia. E’ entusiasta di Tsipras che – dice – è giovane e capace e in cinque mesi ha realizzato più che i vecchi governi in cinque anni. Ci congediamo scambiandoci gli indirizzi di  posta e facebook.

Sono solo alcuni esempi delle conoscenze che abbiamo avuto, da cui ricaviamo una sensazione di piacevole accoglienza.
Salonicco, o Thessaloniki, è la seconda città della Grecia,  con circa 360.000 abitanti mentre nell’area urbana comprendendo anche la penisola Calcidica ammonta a circa un milione di abitanti, ma camminando per le sue strade l’impressione è quella di tranquillità e di assenza di delinquenza  con la percezione di una vita di relazione quieta dove le donne si muovono la sera, a tarda ora, senza timore. E credo che la libertà della donna sia uno degli indicatori più validi per valutare la qualità della vita sociale di un territorio.
Siamo stati anche presenti a espressioni di lotta e disagio sociale, come al nostro arrivo nella piazza di Salonicco davanti al Municipio, prima che Tsipras parlasse al Parlamento, con la bandiera europea a brandelli, oppure le file ai bancomat che iniziavano la mattina alle cinque e si affollavano nella giornata, oppure vedendo le persone che  “fanno cartoni” e viaggiano con questi carichi per le strade – una immagine che da noi non è più consueta -, o ancora, e questo è più doloroso, davanti alla scena di due genitori che, mentre i turisti si godevano un gelato, nella zona della “Rotonda”, rovistavano dentro un cassonetto alla ricerca di qualcosa da mangiare per il figlio; una eclatante manifestazione di ingiustizia sociale,  comune però alle grandi città, in cui la forbice tra chi ha molto e chi non ha niente è sempre più ampia ed evidente.

Il breve viaggio in Grecia nella zona della Macedonia si è quindi concluso, lasciando la sensazione di una bella esperienza e il desiderio di farvi presto ritorno per le bellezze del territorio e per il calore umano che abbiamo trovato.

La prima guerra mondiale
 raccontata dai combattenti


Il 20 maggio 2015 la Camera votò a maggioranza i poteri straordinari al governo e la sera del 23 fu presentata al governo austriaco la dichiarazione di guerra. L’Italia che entrò in guerra nel 1915 era un paese preindustriale con una economia  prevalentemente agricola. L’esercito era costituito a maggioranza dalle masse contadine e operaie con un altro tasso di analfabetismo, uomini che non avevano alcun interesse ad abbandonare famiglia e territorio per una impresa di cui non riuscivano a comprendere la ragione e l’utilità. L’entrata in guerra fu preceduta da una ampia propaganda  appoggiata dalle forze politiche, anche per motivazioni diverse, e dagli  ambienti economici che dalla guerra avevano da guadagnare. Tra gli interventisti che furono tra i sostenitori più convinti   in particolare gli studenti della piccola e media borghesia che abbracciarono le idee nazionaliste affascinati dalla nozione della guerra come  rigenerazione e purificazione, esaltata da  Marinetti e dai Futuristi come “igiene del mondo”.
Nelle “radiose giornate di maggio”, come furono descritte dalla retorica interventista,  grandi folle riempirono le piazze spinte da una specie di follia collettiva e reclamarono l’entrata in guerra   inneggiando ai leaders dell’interventismo, come D’Annunzio, contro i neutralisti, come Giolitti che aveva assunto un atteggiamento prudente consapevole della impreparazione italiana.
Molti intellettuali reclamavano la guerra, in quanto possibilità di affermazione dell’identità nazionale e della stessa identità personale come espressione di uno slancio vitalistico che rompeva con una società in cui la tecnologia industriale tendeva a porre l’uomo in stato di soggezione. La guerra si presentò invece ben presto come il trionfo di una nuova tecnologia, ancora più soffocante e impietosa; all’idea di poter esprimere lo slancio vitale in azioni valorose ben presto si sostituisce la realtà della guerra di logoramento. E se per il “volontario” la guerra rappresentava  l’occasione per dare un senso alla vita tramite il sacrificio, per il lavoratore richiamato si trattava al contrario di tentare di preservarsi per poter tornare alla vita, alla famiglia e ai lavori cui si faceva sentire la mancanza di braccia.
Cesare Giacomelli  (mio bisnonno) di Castellina Marittima

La trincea, un labirinto, un percorso fatto di cunicoli intersecantesi, divenne lo spazio di vita del soldato,  dove l’uomo e la terra diventavano un tutt’uno, in cui si sperimentò costrizione e frustrazione, contaminazione con quello che nella vita civile è normalmente separato: morte, lordura, cadaveri, topi con cui si condividevano spazio e tempo.
La comunicazione epistolare rappresentò lo strumento per ricomporre una identità spezzata, per ricucire il legame con i congiunti, l’identità frammentata della guerra.
Dai documenti – diari, memorie, lettere, cartoline –  ci arrivano le notizie di questi giovani soldati che prendono atto di una realtà che rompe con l’ordinaria vita civile. (Il rapporto) “è invertito: il gatto fugge dinanzi al topo. Ieri l’altro, a notte, mentre stavo accoccolato fuori dai reticolati in posizione avanzata … su un sacchetto con la mantellina che toccava terra coi bordi un tarpone di quelli che al cospetto dei quali il nostro povero Tiritti sarebbe divenuto un pulcino, entrò sotto la detta mantellina e poi non trovando più via d’uscita, cominciò a girare vorticosamente intorno come un disperato  e mi … svegliò!… Insetti ce ne sono di tutti i tipi – le civette svolazzano la notte e sull’uniforme che è un piacere – non mancano poi i topi domestici che durante la notte ci onorano in gran quantità delle loro visite nei nostri ricoveri”
Cosi scrive il S. Tenente Ottorino Andreoni di Livorno. Arrivato a destinazione  il 26 novembre del 1915 rassicura i parenti di trovarsi bene anche se i livornesi sono stati divisi uno per compagnia. Nel maggio del '16 comunica con entusiasmo di essere pronto a combattere contro il nemico con astuzia e tenacia, come hanno già fatto nella eroica azione di Seltz con l’espugnazione ardua e sanguinosa di una  importante trincea , con un “numero straordinario di disgraziati (tutti austriaci) che ci lasciarono le cuoia, specialmente per effetto del terribile bombardamento della nostra artiglieria precedente l’azione ”, ma di cui da comunicazione solo ad impresa avvenuta per non allarmare troppo. Alla madre in particolare dice di stare bene, di avere mangiato addirittura “seppie in  cacciucco… roba da leccarsi le dieci dita”.
Il tempo della trincea tra una azione e l’altra si dilata, scorre lento, c’è tempo per scrivere e per ritrarre l’insolito paesaggio. Il mezzo fotografico venne ampiamente utilizzato per informare chi era a casa dell’ambiente in cui si trovava il soldato, tanto diverso da quello d’origine. Così il S. Tenente: “Tra l’altre cose trovo anche il tempo di fare delle fotografie. Ieri sera sviluppai un rotolo di otto pellicole, oggi le ò tutte stampate e vi mando i campioni con l’opportuna spiegazione” e conclude  “State tutti bene e divertitevi. Le passeggiate lungomare e un po’ di cinematografo costano poco e … baci e abbracci in quantità”.
Caratteristica della guerra di trincea oltre l’immobilità, l’invisibilità , il dover combattere contro un nemico di cui sfugge la presenza. “Di quando in quando i nostri ed i loro raggi illuminavano il campo di battaglia … Nei momenti di calma non par nemmeno di essere alla guerra. Osservando la campagna si scorgono appena le linee nemiche. Le batterie sono invisibili ... Qui non si spara mai un colpo di fucile. Gli Austriaci che non scorgono bene la nostra linea  sufficientemente mascherata e troppo distante non ci molestano neppure col fuoco d’artiglieria”.
Ma alla invisibilità e alla mancanza di punti di orientamento in un  spazio costituito dal labirinto della trincea, dal fango, dagli escrementi tutto intorno insieme ai cadaveri dei soldati,  faceva  riscontro il rumore assordante delle armi. Così racconta l’aspirante ufficiale Nardi Alessandro di Livorno, universitario al 3° anno del corso universitario di legge,  il 27.04.16: “…per dormire abbiamo dovuto abituare l’orecchio al fracasso di tante batterie che ci sono intorno. Dal 23 verso Seltz infuria una tempesta incredibile …gli austriaci contrattaccano per riprendere l’importante posizione”
Col proseguo della guerra matura tra i soldati l’idea che il loro sacrificio è a favore di chi non merita, coloro che sono rimasti a casa non si rendono conto della brutalità, della “indicibilità”  della situazione in cui si trovano.

“Bisognerebbe che tutti quei ciarlatani da caffè che stanno in Italia  venissero un momento a vedere! Se tutti gli Italiani rimasti avessero  ben esatto concetto di che cosa sia la guerra con tutti i suoi innumerevoli sacrifici, invece di sparlare sulle nostre azioni, di commentarle cioè pessimisticamente voterebbero la loro scarsella a favore dei soldati che soffrono e combattono per il (…)  futuro comune”.
Un sentimento di unione tra coloro che condivisero la guerra, generò un forte legame, un cameratismo che sopravviverà tra i veterani alla fine del conflitto e sarà come un segno distintivo tra i sopravvissuti della esperienza comune.





Livorno liberata 



La Liberazione di Livorno si deve all’intervento delle forze alleate  e a quello dei gruppi partigiani che hanno combattuto contro i  tedeschi e i collaboratori fascisti.
Di seguito alcune testimonianze di chi ha vissuto quei momenti da cui appaiono vive le emozioni per un evento a lungo sognato e invocato e finalmente diventato realtà,.
Dalla liberazione di Roma il 4 giugno del 1944, il fronte della guerra era ogni giorno più vicino, gli alleati dopo aver superato Orbetello avanzavano verso la Maremma, mentre i francesi occupavano l’isola d’Elba. Dai primi di giugno si erano susseguiti 12 bombardamenti su Livorno, e  la città era ormai ridotta ad un cumulo di macerie. Il bombardamento del 19 maggio 1944 delle ore 10,15 e quello del 7 giugno delle ore 10,30 furono di una violenza eccezionale e completarono la distruzione della città che si trovava delimitata nella “zona nera”, fortunatamente evacuata, mentre nei precedenti bombardamenti le vittime erano state migliaia. La città era stata bersaglio degli attacchi aerei degli alleati, e dei guastatori tedeschi che in circa un anno di occupazione dal settembre 1943 al luglio 1944 fecero brillare le mine e “danneggiarono gravemente gl’impianti del vecchio e del nuovo porto, distrussero gli Stabilimenti balneari fino ad Antignano e fecero saltare il ‘Fanale’ e diversi ponti” .
Gli americani volevano sferrare un ultimo bombardamento convinti che i tedeschi avessero ammassato nella “zona nera” armi, munizioni, cingolati. Furono i partigiani Francesco Paggini e Gino Tosi, che parteciparono attivamente a molte delle imprese del 10° Distaccamento Partigiano Oberdan Chiesa , a impedire che questo avvenisse. Infatti la loro azione più famosa e forse più importante fu quella che li vide protagonisti di una missione affidata loro dal Comando Americano. Il maggiore Harry Carl Kait, sovrintendente al Civil Affairs Officer, aveva comunicato che il Comando Alleato aveva urgente necessità di conoscere il sistema difensivo tedesco e la dislocazione delle batterie e delle aree minate all’interno di Livorno, ritenuta zona fortificata. In mancanza di queste notizie era stato previsto un disastroso definitivo bombardamento sulla città.
Paggini e Tosi, poco più che ventenni, si offrirono volontari per questa difficile missione. Dalla scogliera di Castiglioncello, arrampicandosi sui dirupi e percorrendo lunghi tratti anche a nuoto, per evitare di imbattersi nelle truppe tedesche, che si supponeva dislocate sulle colline, raggiunsero Chioma e da lì si diressero al Distaccamento a Quarrata. Qui furono raccolte tutte le informazioni e con l’apporto della Giunta Militare del CLN venne redatta una dettagliata carta topografica. Poi gli stessi Paggini e Tosi attraversarono il fronte, affrontando la più rischiosa via di terra, per non sciupare il prezioso documento, riuscendo a raggiungere il Comando USA. Con quella carta topografica venne scongiurata la minaccia di un ultimo micidiale bombardamento.  “Visti i rapporti di fiducia, instauratisi tra il Comando Americano e il Distaccamento, Paggini e Tosi, su invito del Maggiore Kait, indossarono la divisa americana e furono arruolati nella 804a Tank Destroyer Battalion come partigiani-guida, partecipando con le forze alleate alla liberazione delle colline e della città, nella quale il 19 luglio del 1944 entrarono sui carri armati americani.”
23 settembre 1948 Festa dell'Unità a Roma - foto mia personale

Era dall’8 settembre, dall’armistizio, che si erano formati i gruppi partigiani, così ricorda Riccardo De Maio partigiano, che aveva aderito subito all’appello in difesa della libertà: “Iniziai il reclutamento in piazza del Santuario … Le famiglie si erano trasferite in massa tra Montenero, il Savolano e Monterotondo. Avvicinai per primo Sergio Manetti, poi Nelusco Giachini. Ci eravamo stabiliti a Villa Dupouy, che un tempo era stata soggiorno di lord Byron. Lì aveva sede il Cln, dove erano rappresentati tutti i partiti …”
Con l’8 settembre la popolazione livornese si era sparsa anche nella provincia pisana  e il comando militare della resistenza era diventato interprovinciale; Pisa e Livorno, con responsabili Guelfi Aramis e Dino Frangioni, come ricorda Danilo Conti. E a Castellina Marittima si costituì una concentrazione antifascista, cui seguì la formazione di un  raggruppamento partigiano, dove c’erano anche Vasco Jacoponi, Armando e Bruno Gigli. E Conti aggiunge.
“Per quanto riguarda la costruzione dell’opposizione ai repubblichini, cioè alla repubblica proclamata il 12 settembre 1943, la nascita del movimento di Resistenza dalle nostre parti, senza tema di smentita, la si deve agli ex detenuti politici, che vennero fuori dalle galere fasciste. Fra questi io e Benifei” .

 Nei giorni che precedono il 19 luglio nel territorio intorno alla città, fra le colline e il mare, la gente armata era pronta ad intervenire, mentre si rincorrevano le voci sulla prossima entrata degli americani; chi diceva che fossero a Quercianella, chi a Castiglioncello, chi a Montenero.

La sera del 18 sembrava davvero la volta buona:
 “verso le 7 di sera si vede sfilare l’artiglieria tedesca che in assetto di guerra va verso Pisa. Che tutto finisca così…”  si chiede Gastone Razzaguta che era stato tra i pochi a non “sfollare” ed era rimasto in città con la madre malata.
“Intanto i partigiani del ‘decimo distaccamento’ continuavano la loro battaglia. Avevano già avuto i loro morti ed i loro feriti … La notte, lungo i dorsali delle colline, ferveva un’intensa vita di preparazione. Ognuno sentiva che l’ora dello scontro si avvicinava. Gli alleati da alcuni giorni avevano superato Siena e si erano stabiliti a Volterra. Nel segreto del buio, non pochi cercavano di scorgere all’orizzonte, le vampe dei cannoni: i chiari segni della battaglia”.

Aroldo Figara, allora ventisettenne membro del C. L. N. provinciale come delegato del movimento dei cristiano-sociali, rivive con la memoria quei giorni; ad Antignano la gente fece sventolare fuori dalle finestre asciugamani e lenzuoli bianchi.
“Era il segno della resa così come aveva suggerito di fare il Comitato di Liberazione provinciale …La mattina del 19 luglio, avendo saputo tramite il C. L. N. dell’imminente arrivo degli americani, partii prestissimo da Antignano, dove abitavo, e raggiunsi a piedi l’Ardenza. Là, insieme agli altri esponenti del Comitato, ci incolonnammo dietro una bandiera tricolore, pronti ad accogliere i liberatori. In via del Mare vidi spuntare la jeep del maggiore Keith che era accompagnato da altri tre militari. Dietro di loro un camion con le mitragliatrici sul tetto”.

Anche De Maio ripercorre quei momenti: “La storia dice che la liberazione di Livorno avviene il 19 luglio, in realtà però la notte del 18 gli americani già stavano occhieggiando dal Castellaccio. Si vedevano squarci di fari, mentre i tedeschi scappavano. La città era liberata e Il giorno dopo entrammo ad Ardenza. La popolazione applaudiva, ma non ci fu tripudio. Nel pomeriggio mia madre morì. La sera con mio padre, a Collinaia, all'imbocco della strada che porta a Colognole, incrociammo due tedeschi. Uno camminava trasportando su una carriola da muratore un compagno ferito, con la mascella dilaniata. Io, mio padre Dino e Finocchietti li aiutammo a passare il ponte. Non so che fine abbiano fatto. " .

Ed ecco che si videro apparire i carri armati alleati;
 “è il 19 luglio. Una magnifica e calda giornata di sole. Nelle strade, fuori dalla “zona nera”, alcuni cittadini corrono incontro agli alleati, ai partigiani che sono con loro. La città torna a vivere del clamore della gioia perduta da tanto tempo.”
Già di mattina presto c’era stata animazione per le strade, tutti quelli che erano rimasti a Livorno erano già fuori, qualcuno gridava “Sono arrivati gli americani a Colline”,  proponendo di andargli incontro.
Dalla Valle Benedetta scendono imponenti carri armati, appaiono jeeps veloci e camions pieni di soldati americani di colore, sorridenti che buttano caramelle e prendono al volo i pomodori che gli vengono tirati. Ci sono anche “soldati vestiti con divise alleate tinte di verde scuro e alla manica sinistra uno ‘stivale’ ritagliato: sono i prigionieri italiani collaboratori. Si vedono dei civili con bracciale tricolore e fucile: sono i partigiani. Altri ne arrivano sopra gli automezzi sono le truppe alleate”
Il 26 luglio l’aviazione tedesca sferrò un ultimo bombardamento alle ore 23 .
Poi iniziò la lenta opera di ritorno alla vita civile.
Il disarmo voluto dagli alleati avvenne pacificamente, mentre sembra essere stato più difficile passato l’Arno, come afferma G. Benifei .
Uno dei problemi da risolvere fu combattere la delinquenza e riportare all’ordine una situazione frantumata dal punto di vista sociale e istituzionale. La questione delle “segnorine” che venute dal sud si erano stabilite nella pineta di Tombolo coi soldati americani, più che altro di “colore”, è uno degli esempi più squallidi del degrado morale che deriva dalla miseria, dalla distruzione del tessuto sociale e familiare.
Ma fu anche il momento della resa dei conti, di una giustizia immediata o affidata ai competenti organi di giustizia, e ci fu chi pagò per misfatti compiuti anche vent’anni prima.
Iniziò subito, con la vigile presenza del Comando alleato, la ricostruzione della città e la nomina dei componenti delle amministrazioni che dovevano occuparsi della rinascita di Livorno guidata dai partiti usciti vittoriosi dalla resistenza. E il problema emergente fu quello della casa, dare un tetto ai livornesi che ritornati in città avevano trovato la propria rasa al suolo.
B. Carlesi , uno dei tanti “sfollati”,  aveva a quel tempo sei anni ma ha ancora vivo il ricordo di quei giorni. Aveva cercato rifugio con la sua famiglia a Terrinca di Stazzema, dopo l’8 settembre il fratello maggiore era andato insieme ai partigiani sulle colline ma ogni tanto tornava con il timore di essere scoperto dai tedeschi, che ricorda stanziati lì col corpo degli “Alpini” e non tanto temibili come le SS. I ricordi spaziano tra questi eventi che colpirono la mente di un bimbo, di un rilievo dirompente a livello emozionale.
“Una volta insieme ad altri bimbi si scoprì delle micce per la polvere da sparo delle cave, che si fece scoppiettare, quando i tedeschi se ne accorsero ci volevano fucilare, ma non lo fecero, invece ci fecero bere birra e fumare sigari per tutta la notte e la mattina dopo ci sembrava di morire, ma eravamo sempre vivi. Un’altra volta vennero nella casa dove si stava e ci chiesero una seggiola, la mia mamma gliela dette senza fiatare, la portarono fuori, ci legarono una donna, la fucilarono e poi vennero a riportarci la seggiola, una volta invece mentre c’era un bombardamento, una scheggia mi entrò in un polpaccio e mi curò il dottore degli alpini, un tedesco che parlava anche italiano, lui diceva sempre di voler rivedere il suo figliolo che era in Germania e aveva la mia età,  fischiettava una canzone e mi disse che quando avrei sentito quella canzone voleva dire che era vicino, che ci eravamo ritrovati”.
Il racconto prosegue con la liberazione di Livorno e il ritorno a casa.
“Quando si veniva da Terrinca e si camminava, senza scarpe ma solo con calzerotti grossi fatti dai pastori,   lungo il ritorno si vide ad ogni olivo – saranno stati 20/30 – un partigiano impiccato con il filo spinato e per la strada tanti altri cadaveri. Si trovarono anche gli americani che sminavano e uno di loro, nero perché erano più che altro i neri che avevano questi compiti, ci disse che se gli si lavava la jeep ci avrebbe ricompensato a scatolette, mi ricordo ancora che mangiai così tanto da scoppiare. Si arrivò al “Grillo”, c’era un campo dove gli americani  avevano fatto concentramento per i prigionieri tedeschi. Mentre portavano la colonna tedesca sentì fischiare una canzone, era quella che fischiava quel dottore tedesco in Garfagnana, andai lì e mi abbracciò.”
I ricordi sono come un fiume che quando inizia il suo corso procede senza interruzioni e questo ragazzino di una volta avrebbe ancora tante immagini che si sono stampate nella sua mente da raccontare.

Poco lontano la guerra continuava. Ai primi di agosto i tedeschi si ritirarono dietro la linea dell’Arno. Alla Quinta Armata americana fu affidato il settore tirrenico, all’Ottava Armata britannica quello adriatico. La Quinta Armata raggiunse Pisa il 2 settembre Lucca il 6 e Pistoia il 12, mentre i tedeschi si stanziavano sui passi appenninici. I tedeschi risposero all’avanzata alleata con rappresaglie contro civili inermi; le stragi più note sono quelle di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, veri crimini contro l’umanità.




Livorno splendida città d’acqua





Con l’inizio della bella stagione i livornesi si godono la vita all’aperto, e soprattutto i bagni di  mare e di sole,  piacere fra tutti più seguito ed amato. Livorno città affacciata sul mare e percorsa dai canali. Un rapporto con l’acqua che si esprime con la festa delle gare remiere nella stagione estiva che il  Palio conclude, e che testimonia la vocazione marinara della città.
Passione antica radicata nel carattere di una popolazione che dai traffici marittimi e dal legame con il mare ha tratto sviluppo e prosperità. Il mare e il porto sono il centro, il motore della città da sempre, luogo di lavoro, di fatica ma anche di divertimento e festa.
Passione antica, rileggendo alcune testimonianze si possono ammirare con sguardo rivolto al passato gli eventi di un po’ di tempo fa.
E come doveva essere stato splendido lo spettacolo che venne offerto a Pietro Leopoldo in occasione della sua visita come nuovo Granduca di Toscana. Non aveva che diciotto anni  quando giunse a Firenze con la sua sposa. Dopo aver preso possesso delle sue funzioni provvide a scegliere i propri collaboratori in modo autonomo con l’idea di conferire al Granducato una maggiore indipendenza da Vienna, senza tener conto della madre imperatrice Maria Teresa che avrebbe voluto esercitare un maggiore  controllo sul piccolo stato, quindi intraprese la visita dei luoghi della Toscana  per conoscerne il territorio e la popolazione. Venne calorosamente festeggiato in tutte le città, e in particolare a Livorno, come ci ricorda Montanelli , dove per la prima volta vide il mare e se ne innamorò. Leopoldo fu un grande riformatore, un innovatore che lasciò la Toscana, chissà forse a malincuore, per ricoprire la carica di imperatore a Vienna nel 1790 alla morte del fratello Giuseppe II.
Il 14 maggio 1766 Pietro Leopoldo e la moglie partirono da Firenze per Pisa e Livorno. Il 19  giunsero a Livorno salutati con la “salva reale della Fortezza Nuova e con gli applausi del popolo. Due battaglioni erano posti fuori Porta a Pisa, facendo parata fino al Ponte detto del Maglio…”  
Le Nazioni, le diverse comunità, offrirono spettacoli vari; la città era in festa e la piazza d’Arme trasformata in anfiteatro con palchi per gli spettatori e le autorità. Per il piacere del gradito ospite vennero offerti giochi vari come quello del calcio, le corse di cavalli, la rappresentazione in teatro di un opera di Metastasio, e poi sfilate e giochi di luci e la processione nella Collegiata in onore di Leopoldo e di Maria Luisa, la moglie. Non mancò a coronare tutta la manifestazione una grande festa  al molo mediceo. Alla gara presero parte quattro equipaggi; navi e barconi furono imbandierati e sulla piazza davanti allo specchio d’acqua fu costruito un gigantesco palco in legno raffigurante un  tempio romano dove furono premiati i vincitori . Così descrive la manifestazione il Pera:

“Piacevolissima riuscì la festa in mare data dalla colonia Olandese, sia per il vistoso prospetto ornato di colonne archi e statue, con drapperie e padiglioni vagamente intrecciati sul Molo come per lo spettacolo delle gare di quattro fregate messe alla corsa, e dei marinari che dovevano salire a togliere l’insegna; per altro due vincitori essendo caduti  dall’alto nell’acqua, persero il premio, ma non ne rimasero offesi”.

Piace riannodare le tracce di questo breve viaggio nella Livorno del settecento con la descrizione che ne fa la Fallaci in alcune pagine appassionate, ricordando le origini di una ramo della sua famiglia, di cui si passa un piccolo stralcio:

“Coi suoi quarantamila abitanti, cifra che escludeva gli stranieri in transito e i marinai che vivevano a bordo, nel 1773 era fantastica anche la città dentro le mura: fino al millecinquecento un borgo di pescatori e un penitenziario per i fiscalini cioè gli schiavi ai remi delle galere. Cinta da un maestoso fosso d’acqua salata, il Fosso reale, e nella zona chiamata  Nuova Venezia percorsa da bei canali  con graziosissimi ponti, sembrava un’isola nata per sortilegio alla terraferma. E tutto lì esprimeva novità, eccentricità, benessere.”

La città forniva diletto a pescatori e  bagnanti grazie alle vie d’acqua che la attraversavano. Fucini in “Foglie al vento” ricorda i bei momenti vissuti in compagnia di altri quattro o sei ragazzetti durante la sua permanenza a Livorno dal 1849 al 1853. Sotto la guida del pittore Baldini, che fu maestro di Fattori, andavano nella bella stagione a fare lunghe passeggiate quasi ogni giorno, e “nell'estate, lungo il mare fra il Marzocco e il Calambrone, con bagni lunghi lunghi e con svoltoloni che non finivano mai fra la rena di quella spiaggia solitaria”. A volte invece il Baldini, bell'uomo sulla trentina, abbigliato da rivoluzionario di quei tempi, che aveva il compito di insegnare a quei ragazzi il disegno dal vero, li portava a pescare “lungo i fossi più remoti della città dove, con piccolissime canne e piccolissimi ami, ciascuno di noi (ricorda Fucini) prendeva tanti crògnoli da portare a casa la sera abbondante e deliziosa frittura.”   Ma nei fossi si pescavano anche le cee come dice  “Baffoni” nella “Cacciuccata delle celie”(parodia livornese di stampo futurista della Cena delle beffe) : “ero ner fosso, a notte ner barchetto che pescavo le cee lì dirimpetto fra la piazza Maninne er  pontenovo…”

Livorno città d’acqua, che dal mare ha tratto origine e sviluppo, ma anche paure e minacce come ci testimoniano gli ex voto del Santuario di Montenero che rappresentano un po’ la piccola storia della gente comune, che ricordano gli agguati dei mori, i rapimenti e le ruberie, e le aggressioni del mare che da motivo di benessere diventa un incontrollabile nemico e che impetuosamente riversa le sue onde sulla piccola città.
Contro l’imponderabile la risposta dei livornesi è stata allora la devozione della Madonna, a cui si sono appellati per averne la protezione da sempre, e che dal Santuario pare dominare e proteggere come madre misericordiosa.






martedì 17 marzo 2015

Ipazia e le altre

Ipazia e le altre

nel nome delle donne che rivendicano la propria autonomia di pensiero
                                                             

Ipazia visse ad Alessandria dal 370 al 415 d.C.. era figlia di un matematico ed astronomo, Theon, dal quale venne istruita nelle scienze naturali. Si interessò di filosofia, matematica, astronomia e ci ha lasciato importanti trattati. La sua sapienza riuscì a conquistare l’interesse degli studiosi dell’epoca che con lei e sotto la sua guida costituirono un circolo di studio dove trovavano accoglienza i vari aspetti del sapere senza pregiudizi di tipo religioso. Sia Ipazia che Theon furono gli ultimi membri non cristiani conosciuti della scuola di palazzo degli studiosi di Alessandria, ancora pagana. Questa scuola del Museion venne distrutta dai cristiani intorno al 390 e poi trasformata in chiesa. A partire dal 354, in molte parti dell’Impero Romano cristianizzato, il fanatismo religioso si era rivolto contro il luoghi del sapere, ed erano state bruciate le biblioteche con l’obiettivo di distruggere la cultura pagana. Il progetto cristiano era rivolto contro la scienza ellenica vista come un ostacolo all’affermarsi della nuova religione. Bisognava eliminare le prove di tanta sapienza perché chi venisse dopo non potesse sapere.[1]
Ad Alessandria intorno al 375 nacque anche Cirillo che salì al seggio episcopale nel 412; egli cercò l’alleanza del prefetto imperiale Oreste che invece non era molto propenso a schierarsi dalla parte dei cristiani, mentre nutriva una grande ammirazione per Ipazia.
Ipazia godeva di ampio seguito non solo tra gli studiosi, conosceva personalmente il prefetto romano Oreste e ne frequentava abitualmente la casa e il suo prestigio si era enormemente diffuso suscitando l’invidia dei suoi avversari.

Nel mese di marzo del 415 Ipazia venne prese di mira dai seguaci di Cirillo e fu brutalmente aggredita e linciata. Nelle sue annotazioni Socrate Scolastico[2] (teologo, avvocato e storico della Chiesa dell’Impero Romano d’Oriente) commenta così la vicenda:
“Tiratala giù dal carro la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome di Cesario, qui la denudarono e la massacrarono a colpi di tegole , quindi la tagliarono a pezzi e ne bruciarono i miserabili resti.”

Alcuni studiosi hanno potuto verificare la particolare analogia della figura di Ipazia con quella di Santa Caterina di Alessandria[3] - Alessandria d’Egitto 287/305 – ipotizzando che possa trattarsi  della stessa persona o meglio che Santa Caterina di Alessandria di cui non abbiamo documentazione storica, come invece esiste di Ipazia, sia la sua versione cristianizzata Della vita di questa Santa, oltre all’incerta data di nascita e al fatto che fu  sottoposta a martirio ad Alessandria d’Egitto nel 305 circa, si sa poco ed è difficile distinguere la realtà storica dai racconti popolari. Si dice che Caterina fosse una bella giovane egiziana, la Leggenda Aurea precisa che era figlia di re e istruita fin dall’infanzia nelle arti liberali. Nel 305 un imperatore romano tenne grandi celebrazioni ad Alessandria e sembra che Caterina che si trovava presente ai festeggiamenti mentre si stavano facendo sacrifici di animali si rifiutasse di partecipare a tali rituali. L’imperatore che secondo la Leggenda Aurea sarebbe stato colpito dalla bellezza e dalla cultura della giovane nobile convocò un gruppo di retori affinché la convincessero ad onorare gli dei. Ma per l’eloquenza di Caterina tale tentativo andò fallito e addirittura quei sapienti si convertirono. Ma chi era questa donna di cui si dice che intellettualmente nessuno potesse elevarsi alla sua altezza? Ciò che sappiamo è che per la sua sapienza venne elevata a patrona delle arti liberali e della filosofia  e la sua immagine si trova anche sul sigillo della università parigina della Sorbona .
Si dice[1] che a seguito di scavi nei sotterranei della fortezza medievale di Gisors in Nomandia sia stata scoperta la Cappella di Santa Caterina, a cui  si fa riferimento in un manoscritto dell'anno 1375 custodito negli Archivi Nazionali della città normanna. Un rapporto del governatore del castello di Gisors parla dell'esistenza di stanze sotterranee e di questa cappella. L'immagine di Caterina spesso viene rappresentata con i simboli delle ruote cari ai cavalieri Templari che rappresentano lo scorrere del tempo. Ad avviso degli studiosi  Lammer e Boudjada nella identità di Caterina di potrebbe celare quella di Ipazia; essi si domandano infatti se i cavalieri iniziati dell’ordine dei Templari conoscessero la vicenda di Ipazia di Alessandria e per mascherare la sua storia avessero scelto di identificarla in Santa Caterina, adottando una versione cristiana, che rappresenta però allo stesso modo saggezza e dolore. Ma anche di questo non ci sono testimonianze concrete e si tratta di supposizioni, di ipotesi. 


Parla della storia di Santa Caterina nel  suo libro “La città delle dame”, scritto nel 1405, anche Christine de Pizan[5] . Christine, di origini italiane,  – 1365 ca./1430 ca – scrittrice di grande creatività, fu attiva alla corte di Francia, tra le figure più interessanti del panorama letterario francese tra il XIV e il XV sec. Nel suo libro delinea una sorta di città fortificata abitata da donne illustri – regine, poetesse, indovine, scienziate, sante. Tra esse c’è Santa Caterina figlia del re Costa di Alessandria, sapiente ed esperta nelle scienze. Ella, venuta a conoscenza che l’imperatore Massenzio stava per compiere un sacrificio, subito si recò al palazzo imperiale per convincerlo a rivedere questo suo comportamento. Massenzio colpito dalla sua bellezza cercò di blandirla  ma poi visto che non otteneva alcun risultato la fece imprigionare sperando di convincerla con la prigionia e con la fame; ma ancora una volta Caterina non si piegò. Allora l’imperatore ordinò che fosse preparata una macchina di tortura a cui venisse legata per essere dilaniata dalle ruote taglienti. La moglie dell’imperatore impressionata dal coraggio e dalla integrità morale della giovane si recò alla prigione chiedendole di pregare per lei. Massenzio informato della cosa ordinò allora  che sua moglie fosse messa sotto tortura facendole strappare i seni. Poi chiese a Caterina di diventare sua sposa.
Caterina ancora non si piegò e Massenzio diede ordine di decapitarla. Christine de Pizan racconta che gli angeli presero il suo santo corpo e lo portarono sul monte Sinai dove lo seppellirono.

Tra storia e leggenda l’immagine della donna sapiente, coraggiosa, ha attraversato i secoli per giungere sino a noi. La De Pizan che fu una intellettuale di grande valore e donna coraggiosa che seppe far fronte agli ostacoli che la vita le presentò, condanna fermamente i diffamatori delle donne, contro una tradizione maschile e misogina che ha impedito l’affermarsi di una  tradizione letteraria femminile:
Ma se le donne avessero scritto i libri/so per certo sarebbe stato diverso,/poiché ben sanno che a torto sono accusate/così le parti non sono divise equamente,/poiché i più forti  prendono la parte più grande/e chi divide tiene quella migliore per sé”[6]

Ma se oggi possiamo valutare con soddisfazione i risultati raggiunti e la parità conquistata, volgendo però lo sguardo non molto lontano da noi vediamo che nessun progresso c’è stato, anzi  quasi un ritorno all’indietro, ad un oscuro passato in cui la donna è ancorata a retaggi culturali che la vogliono soggiogata e totalmente dipendente dal maschio. La parità del mondo “occidentale” è comunque una conquista recente e l’indipendenza, l’emancipazione intellettuale spesso ancora un sogno irrealizzabile vista la mancanza delle condizioni concrete, al di là della conquista dei diritti civili e politici.  Così Virginia Woolf nel 1928 nel commentare quanto sia difficile per chi pratica il mestiere di  scrittore riuscire ad elaborare il pensiero e mettere per scritto le idee,  sottolinea che per la donna gli ostacoli sono di ben altro livello che per l’uomo:
Ma per la donna, pensavo, guardando gli scaffali vuoti, queste difficoltà erano infinitamente più grandi. In primo luogo avere una stanza tutta per sé, e non diciamo una stanza tranquilla o a prova di rumori, era completamente impossibile, a meno che i suoi genitori fossero eccezionalmente ricchi o molto nobili, perfino agli inizi del Novecento”[7] 

E poi con riferimento alla sorella di Shakespeare da non ricercarsi nelle biografie e che morì senza scrivere una parola, chiude infine con un messaggio di speranza:

“Poiché io credo che se viviamo ancora un alto secolo … se riusciamo ad avere cinquecento sterline l’anno, ognuna di noi, e una stanza propria; se abbiamo l’abitudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se usciamo un attimo dalla stanza di soggiorno … se …  allora si presenterà finalmente l’opportunità e quella poetessa di Shakespeare, ritornerà al corpo del quale tante volte ha dovuto spogliarsi”[8]

Paola Ceccotti







[1] vedi: http://www.lavocedellisola.it/2011/10/09/hypatia-di-alessandria-la-prima-donna-scienziato-vittima-dellintolleranza-religiosa/
[2] Socrate Scolastico – Costantinopoli 380 circa 440 circa – fu un teologo, avvocato e storico della chiesa dell’Impero Romano d’Oriente; la sua opera storica è la Storia Ecclesiastica in sette libri

[3]Helmut Lammer, Mohammed Y. Boudjada. Enigmi di pietra. I misteri degli edifici medievali, Ed. Arkeios, 2005 

[4] ivi
[5] Christine de Pizan, La Città delle dame, Carocci ed., 2010
[6] Christine de Pizan, Epistre ai Dieu d’Amours, ed. Carocci
[7] Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, ed. Feltrinelli
[8] Ivi