domenica 26 luglio 2015

Appunti di viaggio
La mia vacanza in Grecia 

La mia vacanza in Grecia ha coinciso con il momento di punta della crisi dell’economia greca, all’indomani del referendum che si è espresso con il sostegno alla linea di Tsipras.
Avevamo fissato il noleggio di una vettura per una settimana e sbarcati a Salonicco con il volo economico della Rayan,  abbiamo viaggiato a sud e a nord della città e nella penisola Calcidica visitando luoghi storici, archeologici ma anche località balneari, mercati e supermercati.
Siamo così entrati in contatto oltre che con le bellezze di luoghi incantati,  con la gente comune. Persone cordiali e ben disposte verso “gli italiani”. Gente qualsiasi, comune, mi piace sottolinearlo, gente incontrata mentre lavorava o che si trovava a godersi una pausa sulla spiaggia. Sempre con il sorriso, ben disposta ma mai invadente, allo stesso tempo discreta e ospitale. 
Siamo sulla spiaggia di Peira, frequentata dagli abitanti di Salonicco, dopo un bel bagno ci concediamo  un pranzo al ristorante con i tavolini appoggiati sulla spiaggia di fronte al mare e dove spira una sottilissima appena percettibile brezza, che comunque riesce a ristorare dalla calura che preme senza tregua. Mastichiamo poco l’inglese e per niente il greco e quindi non riusciamo a comprendere bene il menu, diciamo quindi al cameriere, parzialmente a cenni, che vorremmo lo stesso piatto che ha portato ad una coppia seduta al tavolo vicino a noi, più o meno della nostra stessa età. Il commensale vicino sentendosi chiamato in causa si alza per salutarci e offrirci qualcosa delle sue pietanze, un mollusco fritto, dei funghi impastellati. Poi ordina al cameriere  un’altra caraffa di vino per noi, e non ci sono versi di rifiutare. Quindi ci dice, con frasi in cui italiano greco inglese si incontrano in uno sforzo sovrumano di comunicazione, che è felice che siamo lì perché gli italiani sono amici dei greci, non come i tedeschi – parole sue – perché la Merkel  si vuol comprare la Grecia, e poi  si comprerà l’Italia, il Portogallo, la Spagna, e poi – aggiunge – possiamo bere tranquillamente perché  la Merkel ha tagliato i fondi per la polizia e di sicuro non ci arresteranno. Quando la coppia finisce di pranzare ci saluta con una calorosa stretta di mano. Noi, nonostante la rassicurazione che la polizia non fa i controlli, non finiamo il vino dato che quello che abbiamo bevuto è già sufficiente a farci sentire un po’ “spaesati”.

Alla ricerca di luoghi interessanti non abbiamo trascurato le classiche maratone sotto  il sole a 40° nei siti archeologici – Pella, Vergina – e la visita ai Musei.
Ci troviamo al Museo Archeologico e della Macedonia di Salonicco, siamo affascinati dagli oggetti esposti nelle teche; gli splendidi manufatti, la ricercata fattura dei monili  e l’ingegnosa cura nella lavorazione delle piccole suppellettili stupiscono per la loro maestria. La nostra attenzione si focalizza poi sulle monete, antichissime ma in buono stato di conservazione, della Magna Grecia, di fattura finissima e pregevole. Il Personale, tutte donne, ci osserva, al momento di uscire una di loro ci chiede sorridendo se siamo italiani e se veniamo dal meridione, considerando che in quanto ammiratori così entusiasti di oggetti che appartengono alla storia del sud Italia dovevamo essere di quelle zone. Sono tre donne, e si chiamano tutte Elena  - non è un caso visto dove ci troviamo- e quella che ci ha interpellato parla perfettamente l’italiano. Ci spiega che ha amici in Italia e ha passato nel nostro paese alcuni mesi a periodi intermittenti. Noi le diciamo che siamo di Livorno e capisce che siamo del nord Italia. Commenta la situazione politica della Grecia dicendo che gli italiani sono molto graditi, l’Italia è un paese dove si è trovata bene e noi non per piaggeria confermiamo il nostro gradimento per il suo paese. Elena annuisce dicendo che, a parte l’attuale congiuntura economica, il suo è un paese dove si vive bene, la vita è rilassata, ai greci piace la vita tranquilla, divertirsi e stare in buona compagnia.  Ci salutiamo affabilmente; è un piacere trovare persone così piacevoli in un paese straniero.


La mattina dopo alla ricerca di un bar per la colazione ci troviamo davanti ad un outlet, vicino al nostro albergo, è nuovo e ci sono negozi non ancora aperti o in fase di apertura,  decidiamo di farci una visita. Come è di prassi faccio una capatina al bagno, in quel momento deserto, apro la porta e dall’altra parte qualcuno la spinge di fretta. “Oh, che paura!” dico istintivamente sul semiserio, e l’altra: “Mi dispiace”, “Niente” rispondo. Razionalizzo dopo che è italiana e poi proseguo con mio marito la visita dei negozi.
Mentre usciamo dal Grande Magazzino la incontriamo di nuovo mentre è sulla porta, ci vede e torna indietro, ci presentiamo, si chiama Emiliana. Ci mettiamo a parlare, è una giovane e graziosa donna sui trent’anni, figlia di architetti, nata a Milano e trasferitasi in Grecia da vent’anni svolge come i genitori la professione di architetto. Si trova bene e si capisce da come ne parla che quella è la sua seconda patria e la ama molto, anche se torna ogni tanto in Italia. E’ entusiasta di Tsipras che – dice – è giovane e capace e in cinque mesi ha realizzato più che i vecchi governi in cinque anni. Ci congediamo scambiandoci gli indirizzi di  posta e facebook.

Sono solo alcuni esempi delle conoscenze che abbiamo avuto, da cui ricaviamo una sensazione di piacevole accoglienza.
Salonicco, o Thessaloniki, è la seconda città della Grecia,  con circa 360.000 abitanti mentre nell’area urbana comprendendo anche la penisola Calcidica ammonta a circa un milione di abitanti, ma camminando per le sue strade l’impressione è quella di tranquillità e di assenza di delinquenza  con la percezione di una vita di relazione quieta dove le donne si muovono la sera, a tarda ora, senza timore. E credo che la libertà della donna sia uno degli indicatori più validi per valutare la qualità della vita sociale di un territorio.
Siamo stati anche presenti a espressioni di lotta e disagio sociale, come al nostro arrivo nella piazza di Salonicco davanti al Municipio, prima che Tsipras parlasse al Parlamento, con la bandiera europea a brandelli, oppure le file ai bancomat che iniziavano la mattina alle cinque e si affollavano nella giornata, oppure vedendo le persone che  “fanno cartoni” e viaggiano con questi carichi per le strade – una immagine che da noi non è più consueta -, o ancora, e questo è più doloroso, davanti alla scena di due genitori che, mentre i turisti si godevano un gelato, nella zona della “Rotonda”, rovistavano dentro un cassonetto alla ricerca di qualcosa da mangiare per il figlio; una eclatante manifestazione di ingiustizia sociale,  comune però alle grandi città, in cui la forbice tra chi ha molto e chi non ha niente è sempre più ampia ed evidente.

Il breve viaggio in Grecia nella zona della Macedonia si è quindi concluso, lasciando la sensazione di una bella esperienza e il desiderio di farvi presto ritorno per le bellezze del territorio e per il calore umano che abbiamo trovato.

La prima guerra mondiale
 raccontata dai combattenti


Il 20 maggio 2015 la Camera votò a maggioranza i poteri straordinari al governo e la sera del 23 fu presentata al governo austriaco la dichiarazione di guerra. L’Italia che entrò in guerra nel 1915 era un paese preindustriale con una economia  prevalentemente agricola. L’esercito era costituito a maggioranza dalle masse contadine e operaie con un altro tasso di analfabetismo, uomini che non avevano alcun interesse ad abbandonare famiglia e territorio per una impresa di cui non riuscivano a comprendere la ragione e l’utilità. L’entrata in guerra fu preceduta da una ampia propaganda  appoggiata dalle forze politiche, anche per motivazioni diverse, e dagli  ambienti economici che dalla guerra avevano da guadagnare. Tra gli interventisti che furono tra i sostenitori più convinti   in particolare gli studenti della piccola e media borghesia che abbracciarono le idee nazionaliste affascinati dalla nozione della guerra come  rigenerazione e purificazione, esaltata da  Marinetti e dai Futuristi come “igiene del mondo”.
Nelle “radiose giornate di maggio”, come furono descritte dalla retorica interventista,  grandi folle riempirono le piazze spinte da una specie di follia collettiva e reclamarono l’entrata in guerra   inneggiando ai leaders dell’interventismo, come D’Annunzio, contro i neutralisti, come Giolitti che aveva assunto un atteggiamento prudente consapevole della impreparazione italiana.
Molti intellettuali reclamavano la guerra, in quanto possibilità di affermazione dell’identità nazionale e della stessa identità personale come espressione di uno slancio vitalistico che rompeva con una società in cui la tecnologia industriale tendeva a porre l’uomo in stato di soggezione. La guerra si presentò invece ben presto come il trionfo di una nuova tecnologia, ancora più soffocante e impietosa; all’idea di poter esprimere lo slancio vitale in azioni valorose ben presto si sostituisce la realtà della guerra di logoramento. E se per il “volontario” la guerra rappresentava  l’occasione per dare un senso alla vita tramite il sacrificio, per il lavoratore richiamato si trattava al contrario di tentare di preservarsi per poter tornare alla vita, alla famiglia e ai lavori cui si faceva sentire la mancanza di braccia.
Cesare Giacomelli  (mio bisnonno) di Castellina Marittima

La trincea, un labirinto, un percorso fatto di cunicoli intersecantesi, divenne lo spazio di vita del soldato,  dove l’uomo e la terra diventavano un tutt’uno, in cui si sperimentò costrizione e frustrazione, contaminazione con quello che nella vita civile è normalmente separato: morte, lordura, cadaveri, topi con cui si condividevano spazio e tempo.
La comunicazione epistolare rappresentò lo strumento per ricomporre una identità spezzata, per ricucire il legame con i congiunti, l’identità frammentata della guerra.
Dai documenti – diari, memorie, lettere, cartoline –  ci arrivano le notizie di questi giovani soldati che prendono atto di una realtà che rompe con l’ordinaria vita civile. (Il rapporto) “è invertito: il gatto fugge dinanzi al topo. Ieri l’altro, a notte, mentre stavo accoccolato fuori dai reticolati in posizione avanzata … su un sacchetto con la mantellina che toccava terra coi bordi un tarpone di quelli che al cospetto dei quali il nostro povero Tiritti sarebbe divenuto un pulcino, entrò sotto la detta mantellina e poi non trovando più via d’uscita, cominciò a girare vorticosamente intorno come un disperato  e mi … svegliò!… Insetti ce ne sono di tutti i tipi – le civette svolazzano la notte e sull’uniforme che è un piacere – non mancano poi i topi domestici che durante la notte ci onorano in gran quantità delle loro visite nei nostri ricoveri”
Cosi scrive il S. Tenente Ottorino Andreoni di Livorno. Arrivato a destinazione  il 26 novembre del 1915 rassicura i parenti di trovarsi bene anche se i livornesi sono stati divisi uno per compagnia. Nel maggio del '16 comunica con entusiasmo di essere pronto a combattere contro il nemico con astuzia e tenacia, come hanno già fatto nella eroica azione di Seltz con l’espugnazione ardua e sanguinosa di una  importante trincea , con un “numero straordinario di disgraziati (tutti austriaci) che ci lasciarono le cuoia, specialmente per effetto del terribile bombardamento della nostra artiglieria precedente l’azione ”, ma di cui da comunicazione solo ad impresa avvenuta per non allarmare troppo. Alla madre in particolare dice di stare bene, di avere mangiato addirittura “seppie in  cacciucco… roba da leccarsi le dieci dita”.
Il tempo della trincea tra una azione e l’altra si dilata, scorre lento, c’è tempo per scrivere e per ritrarre l’insolito paesaggio. Il mezzo fotografico venne ampiamente utilizzato per informare chi era a casa dell’ambiente in cui si trovava il soldato, tanto diverso da quello d’origine. Così il S. Tenente: “Tra l’altre cose trovo anche il tempo di fare delle fotografie. Ieri sera sviluppai un rotolo di otto pellicole, oggi le ò tutte stampate e vi mando i campioni con l’opportuna spiegazione” e conclude  “State tutti bene e divertitevi. Le passeggiate lungomare e un po’ di cinematografo costano poco e … baci e abbracci in quantità”.
Caratteristica della guerra di trincea oltre l’immobilità, l’invisibilità , il dover combattere contro un nemico di cui sfugge la presenza. “Di quando in quando i nostri ed i loro raggi illuminavano il campo di battaglia … Nei momenti di calma non par nemmeno di essere alla guerra. Osservando la campagna si scorgono appena le linee nemiche. Le batterie sono invisibili ... Qui non si spara mai un colpo di fucile. Gli Austriaci che non scorgono bene la nostra linea  sufficientemente mascherata e troppo distante non ci molestano neppure col fuoco d’artiglieria”.
Ma alla invisibilità e alla mancanza di punti di orientamento in un  spazio costituito dal labirinto della trincea, dal fango, dagli escrementi tutto intorno insieme ai cadaveri dei soldati,  faceva  riscontro il rumore assordante delle armi. Così racconta l’aspirante ufficiale Nardi Alessandro di Livorno, universitario al 3° anno del corso universitario di legge,  il 27.04.16: “…per dormire abbiamo dovuto abituare l’orecchio al fracasso di tante batterie che ci sono intorno. Dal 23 verso Seltz infuria una tempesta incredibile …gli austriaci contrattaccano per riprendere l’importante posizione”
Col proseguo della guerra matura tra i soldati l’idea che il loro sacrificio è a favore di chi non merita, coloro che sono rimasti a casa non si rendono conto della brutalità, della “indicibilità”  della situazione in cui si trovano.

“Bisognerebbe che tutti quei ciarlatani da caffè che stanno in Italia  venissero un momento a vedere! Se tutti gli Italiani rimasti avessero  ben esatto concetto di che cosa sia la guerra con tutti i suoi innumerevoli sacrifici, invece di sparlare sulle nostre azioni, di commentarle cioè pessimisticamente voterebbero la loro scarsella a favore dei soldati che soffrono e combattono per il (…)  futuro comune”.
Un sentimento di unione tra coloro che condivisero la guerra, generò un forte legame, un cameratismo che sopravviverà tra i veterani alla fine del conflitto e sarà come un segno distintivo tra i sopravvissuti della esperienza comune.





Livorno liberata 



La Liberazione di Livorno si deve all’intervento delle forze alleate  e a quello dei gruppi partigiani che hanno combattuto contro i  tedeschi e i collaboratori fascisti.
Di seguito alcune testimonianze di chi ha vissuto quei momenti da cui appaiono vive le emozioni per un evento a lungo sognato e invocato e finalmente diventato realtà,.
Dalla liberazione di Roma il 4 giugno del 1944, il fronte della guerra era ogni giorno più vicino, gli alleati dopo aver superato Orbetello avanzavano verso la Maremma, mentre i francesi occupavano l’isola d’Elba. Dai primi di giugno si erano susseguiti 12 bombardamenti su Livorno, e  la città era ormai ridotta ad un cumulo di macerie. Il bombardamento del 19 maggio 1944 delle ore 10,15 e quello del 7 giugno delle ore 10,30 furono di una violenza eccezionale e completarono la distruzione della città che si trovava delimitata nella “zona nera”, fortunatamente evacuata, mentre nei precedenti bombardamenti le vittime erano state migliaia. La città era stata bersaglio degli attacchi aerei degli alleati, e dei guastatori tedeschi che in circa un anno di occupazione dal settembre 1943 al luglio 1944 fecero brillare le mine e “danneggiarono gravemente gl’impianti del vecchio e del nuovo porto, distrussero gli Stabilimenti balneari fino ad Antignano e fecero saltare il ‘Fanale’ e diversi ponti” .
Gli americani volevano sferrare un ultimo bombardamento convinti che i tedeschi avessero ammassato nella “zona nera” armi, munizioni, cingolati. Furono i partigiani Francesco Paggini e Gino Tosi, che parteciparono attivamente a molte delle imprese del 10° Distaccamento Partigiano Oberdan Chiesa , a impedire che questo avvenisse. Infatti la loro azione più famosa e forse più importante fu quella che li vide protagonisti di una missione affidata loro dal Comando Americano. Il maggiore Harry Carl Kait, sovrintendente al Civil Affairs Officer, aveva comunicato che il Comando Alleato aveva urgente necessità di conoscere il sistema difensivo tedesco e la dislocazione delle batterie e delle aree minate all’interno di Livorno, ritenuta zona fortificata. In mancanza di queste notizie era stato previsto un disastroso definitivo bombardamento sulla città.
Paggini e Tosi, poco più che ventenni, si offrirono volontari per questa difficile missione. Dalla scogliera di Castiglioncello, arrampicandosi sui dirupi e percorrendo lunghi tratti anche a nuoto, per evitare di imbattersi nelle truppe tedesche, che si supponeva dislocate sulle colline, raggiunsero Chioma e da lì si diressero al Distaccamento a Quarrata. Qui furono raccolte tutte le informazioni e con l’apporto della Giunta Militare del CLN venne redatta una dettagliata carta topografica. Poi gli stessi Paggini e Tosi attraversarono il fronte, affrontando la più rischiosa via di terra, per non sciupare il prezioso documento, riuscendo a raggiungere il Comando USA. Con quella carta topografica venne scongiurata la minaccia di un ultimo micidiale bombardamento.  “Visti i rapporti di fiducia, instauratisi tra il Comando Americano e il Distaccamento, Paggini e Tosi, su invito del Maggiore Kait, indossarono la divisa americana e furono arruolati nella 804a Tank Destroyer Battalion come partigiani-guida, partecipando con le forze alleate alla liberazione delle colline e della città, nella quale il 19 luglio del 1944 entrarono sui carri armati americani.”
23 settembre 1948 Festa dell'Unità a Roma - foto mia personale

Era dall’8 settembre, dall’armistizio, che si erano formati i gruppi partigiani, così ricorda Riccardo De Maio partigiano, che aveva aderito subito all’appello in difesa della libertà: “Iniziai il reclutamento in piazza del Santuario … Le famiglie si erano trasferite in massa tra Montenero, il Savolano e Monterotondo. Avvicinai per primo Sergio Manetti, poi Nelusco Giachini. Ci eravamo stabiliti a Villa Dupouy, che un tempo era stata soggiorno di lord Byron. Lì aveva sede il Cln, dove erano rappresentati tutti i partiti …”
Con l’8 settembre la popolazione livornese si era sparsa anche nella provincia pisana  e il comando militare della resistenza era diventato interprovinciale; Pisa e Livorno, con responsabili Guelfi Aramis e Dino Frangioni, come ricorda Danilo Conti. E a Castellina Marittima si costituì una concentrazione antifascista, cui seguì la formazione di un  raggruppamento partigiano, dove c’erano anche Vasco Jacoponi, Armando e Bruno Gigli. E Conti aggiunge.
“Per quanto riguarda la costruzione dell’opposizione ai repubblichini, cioè alla repubblica proclamata il 12 settembre 1943, la nascita del movimento di Resistenza dalle nostre parti, senza tema di smentita, la si deve agli ex detenuti politici, che vennero fuori dalle galere fasciste. Fra questi io e Benifei” .

 Nei giorni che precedono il 19 luglio nel territorio intorno alla città, fra le colline e il mare, la gente armata era pronta ad intervenire, mentre si rincorrevano le voci sulla prossima entrata degli americani; chi diceva che fossero a Quercianella, chi a Castiglioncello, chi a Montenero.

La sera del 18 sembrava davvero la volta buona:
 “verso le 7 di sera si vede sfilare l’artiglieria tedesca che in assetto di guerra va verso Pisa. Che tutto finisca così…”  si chiede Gastone Razzaguta che era stato tra i pochi a non “sfollare” ed era rimasto in città con la madre malata.
“Intanto i partigiani del ‘decimo distaccamento’ continuavano la loro battaglia. Avevano già avuto i loro morti ed i loro feriti … La notte, lungo i dorsali delle colline, ferveva un’intensa vita di preparazione. Ognuno sentiva che l’ora dello scontro si avvicinava. Gli alleati da alcuni giorni avevano superato Siena e si erano stabiliti a Volterra. Nel segreto del buio, non pochi cercavano di scorgere all’orizzonte, le vampe dei cannoni: i chiari segni della battaglia”.

Aroldo Figara, allora ventisettenne membro del C. L. N. provinciale come delegato del movimento dei cristiano-sociali, rivive con la memoria quei giorni; ad Antignano la gente fece sventolare fuori dalle finestre asciugamani e lenzuoli bianchi.
“Era il segno della resa così come aveva suggerito di fare il Comitato di Liberazione provinciale …La mattina del 19 luglio, avendo saputo tramite il C. L. N. dell’imminente arrivo degli americani, partii prestissimo da Antignano, dove abitavo, e raggiunsi a piedi l’Ardenza. Là, insieme agli altri esponenti del Comitato, ci incolonnammo dietro una bandiera tricolore, pronti ad accogliere i liberatori. In via del Mare vidi spuntare la jeep del maggiore Keith che era accompagnato da altri tre militari. Dietro di loro un camion con le mitragliatrici sul tetto”.

Anche De Maio ripercorre quei momenti: “La storia dice che la liberazione di Livorno avviene il 19 luglio, in realtà però la notte del 18 gli americani già stavano occhieggiando dal Castellaccio. Si vedevano squarci di fari, mentre i tedeschi scappavano. La città era liberata e Il giorno dopo entrammo ad Ardenza. La popolazione applaudiva, ma non ci fu tripudio. Nel pomeriggio mia madre morì. La sera con mio padre, a Collinaia, all'imbocco della strada che porta a Colognole, incrociammo due tedeschi. Uno camminava trasportando su una carriola da muratore un compagno ferito, con la mascella dilaniata. Io, mio padre Dino e Finocchietti li aiutammo a passare il ponte. Non so che fine abbiano fatto. " .

Ed ecco che si videro apparire i carri armati alleati;
 “è il 19 luglio. Una magnifica e calda giornata di sole. Nelle strade, fuori dalla “zona nera”, alcuni cittadini corrono incontro agli alleati, ai partigiani che sono con loro. La città torna a vivere del clamore della gioia perduta da tanto tempo.”
Già di mattina presto c’era stata animazione per le strade, tutti quelli che erano rimasti a Livorno erano già fuori, qualcuno gridava “Sono arrivati gli americani a Colline”,  proponendo di andargli incontro.
Dalla Valle Benedetta scendono imponenti carri armati, appaiono jeeps veloci e camions pieni di soldati americani di colore, sorridenti che buttano caramelle e prendono al volo i pomodori che gli vengono tirati. Ci sono anche “soldati vestiti con divise alleate tinte di verde scuro e alla manica sinistra uno ‘stivale’ ritagliato: sono i prigionieri italiani collaboratori. Si vedono dei civili con bracciale tricolore e fucile: sono i partigiani. Altri ne arrivano sopra gli automezzi sono le truppe alleate”
Il 26 luglio l’aviazione tedesca sferrò un ultimo bombardamento alle ore 23 .
Poi iniziò la lenta opera di ritorno alla vita civile.
Il disarmo voluto dagli alleati avvenne pacificamente, mentre sembra essere stato più difficile passato l’Arno, come afferma G. Benifei .
Uno dei problemi da risolvere fu combattere la delinquenza e riportare all’ordine una situazione frantumata dal punto di vista sociale e istituzionale. La questione delle “segnorine” che venute dal sud si erano stabilite nella pineta di Tombolo coi soldati americani, più che altro di “colore”, è uno degli esempi più squallidi del degrado morale che deriva dalla miseria, dalla distruzione del tessuto sociale e familiare.
Ma fu anche il momento della resa dei conti, di una giustizia immediata o affidata ai competenti organi di giustizia, e ci fu chi pagò per misfatti compiuti anche vent’anni prima.
Iniziò subito, con la vigile presenza del Comando alleato, la ricostruzione della città e la nomina dei componenti delle amministrazioni che dovevano occuparsi della rinascita di Livorno guidata dai partiti usciti vittoriosi dalla resistenza. E il problema emergente fu quello della casa, dare un tetto ai livornesi che ritornati in città avevano trovato la propria rasa al suolo.
B. Carlesi , uno dei tanti “sfollati”,  aveva a quel tempo sei anni ma ha ancora vivo il ricordo di quei giorni. Aveva cercato rifugio con la sua famiglia a Terrinca di Stazzema, dopo l’8 settembre il fratello maggiore era andato insieme ai partigiani sulle colline ma ogni tanto tornava con il timore di essere scoperto dai tedeschi, che ricorda stanziati lì col corpo degli “Alpini” e non tanto temibili come le SS. I ricordi spaziano tra questi eventi che colpirono la mente di un bimbo, di un rilievo dirompente a livello emozionale.
“Una volta insieme ad altri bimbi si scoprì delle micce per la polvere da sparo delle cave, che si fece scoppiettare, quando i tedeschi se ne accorsero ci volevano fucilare, ma non lo fecero, invece ci fecero bere birra e fumare sigari per tutta la notte e la mattina dopo ci sembrava di morire, ma eravamo sempre vivi. Un’altra volta vennero nella casa dove si stava e ci chiesero una seggiola, la mia mamma gliela dette senza fiatare, la portarono fuori, ci legarono una donna, la fucilarono e poi vennero a riportarci la seggiola, una volta invece mentre c’era un bombardamento, una scheggia mi entrò in un polpaccio e mi curò il dottore degli alpini, un tedesco che parlava anche italiano, lui diceva sempre di voler rivedere il suo figliolo che era in Germania e aveva la mia età,  fischiettava una canzone e mi disse che quando avrei sentito quella canzone voleva dire che era vicino, che ci eravamo ritrovati”.
Il racconto prosegue con la liberazione di Livorno e il ritorno a casa.
“Quando si veniva da Terrinca e si camminava, senza scarpe ma solo con calzerotti grossi fatti dai pastori,   lungo il ritorno si vide ad ogni olivo – saranno stati 20/30 – un partigiano impiccato con il filo spinato e per la strada tanti altri cadaveri. Si trovarono anche gli americani che sminavano e uno di loro, nero perché erano più che altro i neri che avevano questi compiti, ci disse che se gli si lavava la jeep ci avrebbe ricompensato a scatolette, mi ricordo ancora che mangiai così tanto da scoppiare. Si arrivò al “Grillo”, c’era un campo dove gli americani  avevano fatto concentramento per i prigionieri tedeschi. Mentre portavano la colonna tedesca sentì fischiare una canzone, era quella che fischiava quel dottore tedesco in Garfagnana, andai lì e mi abbracciò.”
I ricordi sono come un fiume che quando inizia il suo corso procede senza interruzioni e questo ragazzino di una volta avrebbe ancora tante immagini che si sono stampate nella sua mente da raccontare.

Poco lontano la guerra continuava. Ai primi di agosto i tedeschi si ritirarono dietro la linea dell’Arno. Alla Quinta Armata americana fu affidato il settore tirrenico, all’Ottava Armata britannica quello adriatico. La Quinta Armata raggiunse Pisa il 2 settembre Lucca il 6 e Pistoia il 12, mentre i tedeschi si stanziavano sui passi appenninici. I tedeschi risposero all’avanzata alleata con rappresaglie contro civili inermi; le stragi più note sono quelle di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, veri crimini contro l’umanità.




Livorno splendida città d’acqua





Con l’inizio della bella stagione i livornesi si godono la vita all’aperto, e soprattutto i bagni di  mare e di sole,  piacere fra tutti più seguito ed amato. Livorno città affacciata sul mare e percorsa dai canali. Un rapporto con l’acqua che si esprime con la festa delle gare remiere nella stagione estiva che il  Palio conclude, e che testimonia la vocazione marinara della città.
Passione antica radicata nel carattere di una popolazione che dai traffici marittimi e dal legame con il mare ha tratto sviluppo e prosperità. Il mare e il porto sono il centro, il motore della città da sempre, luogo di lavoro, di fatica ma anche di divertimento e festa.
Passione antica, rileggendo alcune testimonianze si possono ammirare con sguardo rivolto al passato gli eventi di un po’ di tempo fa.
E come doveva essere stato splendido lo spettacolo che venne offerto a Pietro Leopoldo in occasione della sua visita come nuovo Granduca di Toscana. Non aveva che diciotto anni  quando giunse a Firenze con la sua sposa. Dopo aver preso possesso delle sue funzioni provvide a scegliere i propri collaboratori in modo autonomo con l’idea di conferire al Granducato una maggiore indipendenza da Vienna, senza tener conto della madre imperatrice Maria Teresa che avrebbe voluto esercitare un maggiore  controllo sul piccolo stato, quindi intraprese la visita dei luoghi della Toscana  per conoscerne il territorio e la popolazione. Venne calorosamente festeggiato in tutte le città, e in particolare a Livorno, come ci ricorda Montanelli , dove per la prima volta vide il mare e se ne innamorò. Leopoldo fu un grande riformatore, un innovatore che lasciò la Toscana, chissà forse a malincuore, per ricoprire la carica di imperatore a Vienna nel 1790 alla morte del fratello Giuseppe II.
Il 14 maggio 1766 Pietro Leopoldo e la moglie partirono da Firenze per Pisa e Livorno. Il 19  giunsero a Livorno salutati con la “salva reale della Fortezza Nuova e con gli applausi del popolo. Due battaglioni erano posti fuori Porta a Pisa, facendo parata fino al Ponte detto del Maglio…”  
Le Nazioni, le diverse comunità, offrirono spettacoli vari; la città era in festa e la piazza d’Arme trasformata in anfiteatro con palchi per gli spettatori e le autorità. Per il piacere del gradito ospite vennero offerti giochi vari come quello del calcio, le corse di cavalli, la rappresentazione in teatro di un opera di Metastasio, e poi sfilate e giochi di luci e la processione nella Collegiata in onore di Leopoldo e di Maria Luisa, la moglie. Non mancò a coronare tutta la manifestazione una grande festa  al molo mediceo. Alla gara presero parte quattro equipaggi; navi e barconi furono imbandierati e sulla piazza davanti allo specchio d’acqua fu costruito un gigantesco palco in legno raffigurante un  tempio romano dove furono premiati i vincitori . Così descrive la manifestazione il Pera:

“Piacevolissima riuscì la festa in mare data dalla colonia Olandese, sia per il vistoso prospetto ornato di colonne archi e statue, con drapperie e padiglioni vagamente intrecciati sul Molo come per lo spettacolo delle gare di quattro fregate messe alla corsa, e dei marinari che dovevano salire a togliere l’insegna; per altro due vincitori essendo caduti  dall’alto nell’acqua, persero il premio, ma non ne rimasero offesi”.

Piace riannodare le tracce di questo breve viaggio nella Livorno del settecento con la descrizione che ne fa la Fallaci in alcune pagine appassionate, ricordando le origini di una ramo della sua famiglia, di cui si passa un piccolo stralcio:

“Coi suoi quarantamila abitanti, cifra che escludeva gli stranieri in transito e i marinai che vivevano a bordo, nel 1773 era fantastica anche la città dentro le mura: fino al millecinquecento un borgo di pescatori e un penitenziario per i fiscalini cioè gli schiavi ai remi delle galere. Cinta da un maestoso fosso d’acqua salata, il Fosso reale, e nella zona chiamata  Nuova Venezia percorsa da bei canali  con graziosissimi ponti, sembrava un’isola nata per sortilegio alla terraferma. E tutto lì esprimeva novità, eccentricità, benessere.”

La città forniva diletto a pescatori e  bagnanti grazie alle vie d’acqua che la attraversavano. Fucini in “Foglie al vento” ricorda i bei momenti vissuti in compagnia di altri quattro o sei ragazzetti durante la sua permanenza a Livorno dal 1849 al 1853. Sotto la guida del pittore Baldini, che fu maestro di Fattori, andavano nella bella stagione a fare lunghe passeggiate quasi ogni giorno, e “nell'estate, lungo il mare fra il Marzocco e il Calambrone, con bagni lunghi lunghi e con svoltoloni che non finivano mai fra la rena di quella spiaggia solitaria”. A volte invece il Baldini, bell'uomo sulla trentina, abbigliato da rivoluzionario di quei tempi, che aveva il compito di insegnare a quei ragazzi il disegno dal vero, li portava a pescare “lungo i fossi più remoti della città dove, con piccolissime canne e piccolissimi ami, ciascuno di noi (ricorda Fucini) prendeva tanti crògnoli da portare a casa la sera abbondante e deliziosa frittura.”   Ma nei fossi si pescavano anche le cee come dice  “Baffoni” nella “Cacciuccata delle celie”(parodia livornese di stampo futurista della Cena delle beffe) : “ero ner fosso, a notte ner barchetto che pescavo le cee lì dirimpetto fra la piazza Maninne er  pontenovo…”

Livorno città d’acqua, che dal mare ha tratto origine e sviluppo, ma anche paure e minacce come ci testimoniano gli ex voto del Santuario di Montenero che rappresentano un po’ la piccola storia della gente comune, che ricordano gli agguati dei mori, i rapimenti e le ruberie, e le aggressioni del mare che da motivo di benessere diventa un incontrollabile nemico e che impetuosamente riversa le sue onde sulla piccola città.
Contro l’imponderabile la risposta dei livornesi è stata allora la devozione della Madonna, a cui si sono appellati per averne la protezione da sempre, e che dal Santuario pare dominare e proteggere come madre misericordiosa.