lunedì 9 febbraio 2015

A proposito del voto alle donne


Nel 1920 il disegno di legge in discussione alla Camera sulla legge elettorale (Modifiche alle norme concernenti le elezioni amministrative) aveva previsto il diritto di voto amministrativo alle donne, in particolare caldeggiato dai partiti socialisti e popolari.  Ma per il precipitare della situazione nel paese, con scontri, eccidi, assalti alle istituzioni, Giolitti decise di sciogliere la Camera e di indire nuove elezioni. E con ciò il provvedimento sulla nuova legge elettorale e la previsione di voto alle donne cadde e non passò all’esame del senato, benché avesse avuto una approvazione quasi totale alla Camera con 240 voti a favore e soltanto 10 contrari.
All’indomani dell’approvazione alla Camera del disegno di legge Bianca Flury Nencini, giornalista e scrittrice, salutava sulla Gazzetta Livornese la conquista del diritto politico a dispetto delle posizioni avverse di quegli uomini – categoria generale non meglio identificata politicamente - che vi avrebbero visto la distruzione della femminilità, paventando la fine della tranquilla distinzione di ruoli all’interno della famiglia:
(Gli uomini) “…Hanno pianto le ultime lacrime su quella famosa femminilità che riceve dalla scheda l’ultimo colpo di grazia; altri più pratici  hanno pensato con mesto rimpianto al pranzo compromesso da un comizio elettorale o a qualche famigliare ricatto della moglie che agiterà, in estrema difesa una lista da votare contro quella sostenuta dal marito. E hanno già previsto i gravi disordini che terranno dietro a una mattinata perduta a far la coda davanti a una sezione elettorale, mentre a casa il soffritto brucia e il marmocchio strepita reclamando la pappa mattutina.
Altri, mirando più lungi del pranzo ritardato e del soffritto arrostito, hanno preveduto il grave disordine che al partito dell’ordine  porterà il diritto ora acquisito della donna, la quale è immatura ad esercitarlo e diverrà strumento cieco di partiti, facile preda del primo che saprà farle vedere lucciole per lanterne.”[1]
Tratteggiava così la questione del voto come fosse una semplice schermaglia tra i sessi, mettendo in evidenza i possibili contrasti che sarebbero potuti nascere in famiglia, ma allo stesso tempo raccomandava alle donne di non lasciarsi attirare dalla propaganda di quei partiti che avrebbero potuto approfittarsi della loro credulità e impreparazione, con sicuro riferimento ai partiti popolare e soprattutto socialista che avevano tenuto conto nei loro programmi dell’emancipazione femminile. Per questo il diritto di voto (amministrativo) ottenuto – perché così  pareva certo in quel momento – doveva ricevere particolare attenzione ed una adeguata formazione che garantisse il suo esercizio in autonomia.
“Occorre dunque prima di tutto vincere l’indifferenza della grande massa femminile perché la funzione del voto quando sarà da noi esercitata, abbia un significato morale oltre un valore numerico di cui profitterà il partito più organizzato.
Dovremo fare ora quel lavoro che doveva logicamente procedere la concessione del diritto preparando la donna ad esercitarlo con coscienza per la sua dignità. Perché questo o quel partito  non conti ciecamente su di noi …
Si sa che i partiti di avanguardia hanno già sotto mano questa forza nuova da mettere in valore per il trionfo della loro causa. E alcuni credono che la educazione della donna alla nuova funzione del voto consista nella organizzazione per quei partiti che fin qui la trascurarono. Ma non è questo  ciò che per l’elevazione morale della donna deve cercarsi. La disciplina di partito è una bella conquista per il partito che riescì ad ottenerla; ma non deve essere fine a se stessa e non innalza di un grado il livello morale dell’individuo.
Noi vogliamo la donna veramente cosciente di quello che, esercitando il diritto di voto, dimostra di valere: la desideriamo – qualunque fede professi – con una personalità propria e con la facoltà di pensare col proprio cervello.…”[2]

Espressione di quel mondo borghese che aveva aderito alle idee nazionaliste contro l’espansione della dottrina socialista, la Flury Nencini come altre figure rappresentative dei movimenti di emancipazione femminile (non ultima Teresa Labriola figlia del filosofo Antonio, propagandista di idee nel campo della emancipazione femminile, nonché giurista, che aderì a posizioni nazionaliste e poi fasciste) subì il fascino di Mussolini, di un regime che  esaltò la donna nella sua funzione materna ponendola al centro del programma di restaurazione della famiglia e di sviluppo della natalità facendone il riferimento di eventi significativi, anche se fu incapace di interrompere un processo di sviluppo della identità femminile, che continuò a rivolgere la sua intelligenza al di là delle pareti domestiche e che si concretizzò poi nella conquista dei diritti politici nel secondo dopoguerra. Il richiamo di Mussolini fu rivolto proprio verso quella parte della popolazione di estrazione borghese che aveva fornito il consenso alla sua affermazione, esso fondava la sua attrazione sui valori ereditati dal Risorgimento, l’ideale di patria, di unità  nazionale, la famiglia in cui ciascuno è impegnato a porgere il servizio allo stato differentemente secondo la sua posizione e identità di genere.

Con l’inasprirsi della conflittualità sociale a livello nazionale, con l’assalto alle istituzioni da parte delle squadre fasciste si generò una situazione di estrema crisi che portò Giolitti il 7 aprile alla decisione di sciogliere la Camera, motivando tale scelta con la necessità di tenere nuove elezioni per far partecipare al voto la popolazione dei territori annessi di recente, e per il fatto che la Camera uscita da quelle del 1919 non corrispondeva più alla realtà del paese.  Le elezioni vennero indette per il 15 maggio. Giolitti sperava di ottenere dal risultato elettorale una maggiore rappresentanza a scapito dei partiti socialista e popolare. E in tal  senso favorì con il blocco nazionale – c. d. “listone” – l’alleanza tra liberali e fascisti, con lo scopo di riuscire a coinvolgere questi ultimi nel sistema parlamentare. Egli riteneva di poter servirsi del fascismo per reprimere l’estremismo socialista, creando così le condizioni per un rafforzamento dello stato liberale.
La campagna elettorale si svolse in un clima di terrore. Dall’Emilia lo squadrismo fascista al servizio degli agrari si diffuse in Toscana e in Umbria. Un po’ in tutta l’Italia centro settentrionale le squadre d’azione fasciste presero d’assalto le sedi dei sindacati e del partito socialista; esse erano formate prevalentemente di giovani e medio piccolo borghesi, sottoproletari e avventurieri veri e propri.  Matteotti pubblicò in merito nel 1921 l’ “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, sulle  violenze dei fascisti a base di manganello e olio di ricino durante la campagna elettorale di quell’ anno.
Quando il fascismo si insediò nelle stanze delle istituzioni sarà proprio la F. Nencini, con la sua attività di giornalista e scrittrice, a farsi  portavoce oltre che delle attività e manifestazioni del  comune di Livorno fascista, di quelle più precisamente femminili, con un continuo appello ai valori della famiglia, pubblicando articoli centrati sulla valorizzazione della figura della donna, sposa e madre, elemento centrale e caratterizzante del nuovo ordine che il fascismo aveva ristabilito, contro i modelli d’oltralpe e quelli proposti nei programmi socialisti. Principi di cui la stessa si era fatta portatrice già anni prima. Nella Conferenza su “Le donne nella guerra” organizzata nel febbraio 1917 per conto del Comitato di Livorno Società Nazionale Dante Alighieri per la sovvenzione alla Casa dei Bambini la F.  Nencini che ne era fondatrice e direttrice esprimeva le idee di un femminismo più vicino ad un comitato di beneficenza che all’associazionismo femminile in lotta per i diritti civili e  del lavoro. Precisava nel suo intervento che la marionetta della femminista era stata abbandonata, dimenticata tra i vecchiumi di un passato che pareva ormai lontanissimo nel tempo, una peraltro “detestata marionetta”. E particolarmente detestata perché essa non era “Italiana”, perché la donna latina ha troppo senso della misura per certi eccessi. “La femminilità ha ucciso il femminismo”; ed ecco qual è a suo avviso il ruolo della donna italiana così come dimostrano a suo parere la storia e la leggenda: “sempre accanto al guerriero, sia pure in scorcio o nell’ombra, la donna. Soave figura di consolatrice o di trepida aspettante presso una culla o ad un focolare deserto china la testa alla ineluttabile necessità, che insidia il suo piccolo mondo.”[3]   Ma la stessa rimarcava che il coraggio femminile ha un valore se è collettivo se è condiviso nella moltitudine delle donne, così la donna italiana che nel momento della guerra e del bisogno, per via della grave situazione, era uscita dalla solitudine della sua individualità di madre e casalinga per affrontare il problema economico e si era misurata con professioni nuove, anche di tipo intellettuale. Ma triste conseguenza era poi diventata così inquieta e disdegnosa delle piccole cure domestiche, desiderosa di misurarsi con l’uomo, di gareggiare con lui nella conquista delle professioni, tanto da essersi “mascolinizzata”, prendendo molti dei difetti dell’uomo. Il suggerimento era quindi quello di ritornare al ruolo che le è proprio: il lavoro di cura. E’ in questo ambito che intravede la rinascita di una donna nuova con il ritorno all’antico, che si fa grande nelle forme moderne della beneficenza. L’ufficio a cui è chiamata la donna è quello che più si addice alla natura femminile: “quello che la mette in contatto col dolore più vivo e avvicina le classi sociali più lontane tra loro, e fa di tutte le forze della nazione – del valore, della pietà, della grazia - una forza sola: dell’ufficio di infermiera… e quando la donna non ha potuto farsi infermiera è stata visitatrice di ospedali”.
Alla fine del suo intervento chiariva meglio il suo pensiero intorno alle giuste aspirazioni e funzioni proprie della donna:
“E che ci darete che valga il pianto di una madre? Il voto? Lo ebbero anche gli analfabeti! L’indipendenza dalla autorizzazione maritale per disporre dei nostri beni? Ognuno che non sia del tutto deficiente dispone dei propri beni! La ricerca di paternità? Non giova soltanto alla donna. Se queste concessioni verranno noi ci rallegreremo del mutato concetto sulla nostra mentalità che vi avrà deciso a riconoscerli diritti nostri. Ma noi non lavorammo per queste meschine conquiste… Una sola conquista vagheggiammo: la vittoria d’Italia. Oggi collaboratrice preziose dell’uomo in tutti i campi dell’attività umana e domani – se altro da noi non si chieda – soltanto donne – regine della nostra casa”[4]

C’è in queste considerazioni già tratteggiata la figura della donna fascista orientata verso la nobile attività assistenziale - educativa per il bene della nazione, una espansione all’esterno delle caratteristiche genetiche di cura e della sua propensione a farsi amorevole assistente del “guerriero” e della di lui prole. Una figura che non travalica lo spazio proprio del maschile, di cui al massimo può farsene carico, come straordinaria supplenza, in momenti di particolare emergenza, tornando prontamente alle occupazioni costitutive della femminilità; è nella famiglia che la donna adempie la sua funzione sociale, e non è donna chi non è madre, è il sentimento, e non la ragione, la molla della sua azione.

Tornando alla elezioni del 1921 la F. Nencini fu attiva in campagna elettorale, e  organizzatrice di un patriottico comizio dell’Alleanza Femminile di cui presiedette i lavori al “Rossigni” alla presenza di donne e uomini fascisti e nazionalisti[5]. Nel proseguo della sua attività di scrittrice e giornalista sarà presenza costante e rappresentativa del mondo femminile fascista livornese e in genere di quel partito che dominerà per venti anni la vita italiana seguendone e diffondendone le attività e le manifestazioni più rilevanti. Ma proprio il suo attivismo intellettuale, l’impegno puntuale e continuativo, come si può osservare, mal si accorda al suo appello alla vocazione naturale della donna come pilastro della famiglia, è più invece la dimostrazione di come la donna potesse essere altro dallo stereotipo che aveva proposto.

Dopo le elezioni del 1921 la legge sul voto venne nuovamente presentata e Mussolini ne fu cauto e poco convinto portavoce andando  incontro alla richiesta di numerosi fasci femminili, e senza credere realmente al giusto riconoscimento dei diritti civili e politici delle donne in risposta alle preoccupazione e alle manifestazioni contrarie di esponenti del suo partito affermava cinicamente: “Qualcuno crede che l’estensione del voto alle donne provocherà delle catastrofi. Lo nego. Non ne ha provocato nemmeno, in fin dei conti, quello maschile, perché su undici milioni che dovrebbero esercitare il loro diritto, sei milioni non ci pensano nemmeno. Così accadrà delle donne. La metà  forse vorrà esercitare il proprio diritto al voto.”[6]
La legge n. 2125 del 22 novembre 1925 relativa alla “Ammissione delle donne all’elettorato amministrativo” passò, ma essa era non solo relativa alle sole elezioni amministrative e non politiche ma ulteriormente ridotta rispetto ai precedenti progetti perché riservata a poche categorie di donne. Potevano votare a richiesta coloro che avessero compiuto i 25 anni e fossero decorate al valor civile o militare, benemerite della sanità pubblica, o per altre attività prestate in occasione di pubbliche calamità, o fossero madri e vedove di caduti in  guerra purché avessero la patria potestà o la tutela dei figli, sapessero leggere e scrivere e fossero contribuenti nel comune in cui chiedevano di votare di almeno 100 lire annue. I comuni compilarono gli elenchi elettorali femminili che vennero esposti all’Albo Pretorio. Ma il 12 luglio 1926 venne diramato con un telegramma dal Ministero dell’Interno a tutti i prefetti la comunicazione di sospensione delle elezioni. Già con legge n. 237 del 4 febbraio 1926 era stata istituita la figura del podestà e la consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente ai 5000 abitanti. Con R.d. n. 1910 del 3 settembre 1926 tali norme vennero estese a tutti i Comuni del regno. In base alle nuove disposizioni il podestà veniva nominato con decreto reale, durava in carica 5 anni e poteva essere sempre riconfermato, i consultori facenti parte della consulta municipale erano nominati con decreto prefettizio, direttamente per un terzo e per due terzi su designazione degli enti economici, dei sindacati, delle associazioni locali. Non solo finiva così la speranza delle donne di ottenere i diritti politici, ma si annullavano le prerogative democratiche e la strada alla dittatura era ormai aperta.  

Paola Ceccotti



[1] Dopo il voto alle donne, di Bianca Flury Nencini Gazzetta Livornese del 26/27 novembre 1920
[2] Ivi
[3]Le donne nella guerra”. Conferenza di Bianca Flury Nencini, febbraio 1917
[4] Ivi
[5] Gazzetta Livornese, 14 maggio 1921
[6] In I. Vaccai, La donna nel ventennio fascista 1919 – 1943, ed. Vangelista, 1978, pag. 84
La prima seduta del Consiglio Comunale uscito dalle elezioni del 1920

Il 22 novembre 1920 alle ore 18.00 si insediò formalmente il nuovo Consiglio Comunale uscito dalle elezioni del 7 novembre, in un clima di accesa partecipazione da parte del pubblico intervenuto.
Il regio commissario dott. Enrico Cavalieri, dopo aver dichiarato aperta e valida la seduta, dava lettura della propria gestione e quindi dichiarava insediato in nome di sua maestà il re il Consiglio Comunale. Il pubblico, come registrano gli atti municipali, era numerosissimo e chiassoso. Il consigliere anziano, on. Giuseppe Emanuele Modigliani assumeva la presidenza dell’assemblea, e pronunciava quindi le seguenti parole: Nessuno troverà strano che nell’assumere per pochi momenti l’ufficio che dalla sorte delle urne mi è attribuito, io dica qual è il pensiero di gioia e soddisfazione con cui il partito socialista e le organizzazioni operaie accettano il loro ufficio. Questa che secondo l’evoluzione storica dovrebbe essere la casa del popolo, è stata sempre la casa della classe che ha tenuto fino a qui il potere. Oggi invece è la casa della classe che fu governata e che non vuole essere più governata ma che invece governerà …[1]
 In quella prima seduta dopo gli adempimenti di legge – appello nominale e proclamazione degli eletti – era iscritto come primo punto dell’ordine del giorno il “riconoscimento della Repubblica comunista federativa dei consigli di Russia”, a cui l’on. Modigliani  rivolgeva un particolare saluto, ricordando che quella grande rivoluzione rappresentava il primo e più titanico sforzo del proletariato contro la classe capitalistica. Successivamente Modigliani poneva all’attenzione dell’assemblea i fatti del 10 novembre e i tentativi di prendere con la forza il Comune: In questo momento non bisogna dimenticare che anche Livorno or sono pochi giorni fu oggetto del tentativo più insano che da qualche tempo si sta agitando da Verona a Bologna dove faziose minoranze sognano di sopprimere le funzioni del Comune socialista, ma sono minoranze e saranno schiacciate ora e sempre.[2]
Quindi venivano messi in votazione due ordini del giorno; il primo di solidarietà alla rivoluzione russa e verso tutti coloro che come Eugenio Debes ed Errico Malatesta  scontavano nelle carceri reati di pensiero, il secondo nel quale, richiamando i fatti del 10 novembre, il Consiglio Comunale assumeva l’impegno della difesa del Comune ad ogni costo, contro i faziosi e i violenti.
Il cons. Mondolfi interveniva contro il cons. Corcos che aveva richiesto il rispetto del pensiero della minoranza, per ribadire che nel paese non erano i socialisti ad abusare dei diritti o a fomentare disordini. E riferendosi ai fatti del 10 novembre ricordava che i fascisti avevano voluto imporre il levarsi di cappello ad una bandiera che non rappresenta la nazione ma una classe, quella che ha voluto la guerra. Mondolfi concludeva così il suo intervento: Con ciò noi non intendiamo di contestare alla borghesia il diritto di difendersi, ma non si affermi che in Italia c’è la libertà, perché questa è la libertà della borghesia che adopera ogni arte per soffocare i suoi avversari. Ma siate pur sicuri che la classe proletaria saprà trovare i mezzi atti ad opporsi[3]. (Applausi vivissimi da parte della maggioranza e del pubblico). Tutti e due gli ordini del giorni venivano approvati dalla maggioranza.  
Il Consiglio Comunale provvedeva quindi alla elezione del Sindaco nella persona del prof. Uberto Mondolfi, eletto con 47 voti su 58 (Mondolfi 47, Minghi 1, Bianche 10); e subito dopo a quella degli Assessori senza la partecipazione della minoranza che dichiarava di astenersi. Erano proclamati eletti: Adolfo Minghi, Assessore anziano; Assessori effettivi: Nello Assum, Giuseppe Bacci, Armando Bartorelli, Giuseppe Cardon, Oreste Marcaccini, Francesco Mario Stefanini, Giorgio Urbani; Assessori supplenti: Ezio Felli, Aurelio Del Lucchese, Ilio Barontini, Riccardo Marchi.
Il mese di novembre del 1920 è già anticipazione di quegli eventi che si intensificheranno precipitando nella dissoluzione delle istituzioni democratiche. 
Il 17 novembre e quindi a sette giorni di distanza dalla manifestazione patriottica si era costituito nella sede dell’associazione Garibaldina il primo fascio di combattimento di Livorno, “con un segretario improvvisato e quattro consiglieri[4]; più precisamente un bidello di scuole elementari, un portuale, due negozianti; esso veniva accolto almeno inizialmente con qualche diffidenza dalla Unione democratica livornese uscita sconfitta dalle elezioni.
Era la risposta ai fatti del 10 novembre, alle reazioni della cittadinanza contro i  tentativi di imporre con la violenza un nuovo “ordine”. Come si afferma in successivi articoli del regime:  a seguito dei tafferugli  con i “leninisti”, nella sede dei reduci garibaldini in via Reale al n. 5 si formò il primo nucleo di fascisti livornesi, sede da cui partirono le sempre più agguerrite imprese squadristiche.[5]



[1] CLAS, adunanza del Consiglio Comunale del 22 novembre 1920
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] F. Pieroni Bortolotti, in Ricerche storiche, 1987, ed. Scientifiche Italiane, pag. 59
[5] Livorno nella guerra nell’impero, 1937, Milano; e O. Fanfulla, Le sedi del fascio, in Liburni Civitas, 1932, pag. 299

Il 1920 nei giornali


Le amministrative del 1920 avevano visto la vittoria socialista sulle forze della borghesia cittadina unite nella Unione Democratica che aveva fatto della battaglia al bolscevismo la propria bandiera, e del Partito Popolare che aveva partecipato con proprie liste con un programma che pur non prefigurando uno sconvolgimento sociale puntava ad un miglioramento delle condizioni delle classi umili, con particolare attenzione all’assistenza sanitaria, all’istruzione, al problema della casa.
I giornali “Il Telegrafo” e la “Gazzetta Livornese” avevano fatto una grossa campagna di stampa  a favore della Unione Democratica. La “Gazzetta Livornese” era stato il primo quotidiano importante di Livorno, dal 1919 una sorta di edizione pomeridiana de “Il Telegrafo” che divenne il foglio principale della città, mentre la “Gazzetta” si differenziò per una maggiore attenzione alla realtà locale. Le due testate passeranno ad un sostegno pieno al fascismo sin dal 1921[1], da una iniziale   linea politica conforme a quel  “Fascio Liberale” – “Costituzionale” costituitosi il 10 marzo del 1919 sotto la direzione del prof. Giovanni Targioni Tozzetti, raggruppamento conservatore legalitario che con il progressivo sviluppo del sentimento antibolscevico dei suoi componenti aderirà a posizioni più intransigenti e antisocialiste.
Il successo dei socialisti si era affermato in un clima di guerra civile a livello nazionale con l’aggressione alla Tipografia dell’ “Avanti”. Nella seduta del 21 luglio 1920 alla Camera fu discussa la questione degli incidenti verificatisi a Roma in seguito agli scioperi dei tranvieri e quella della distruzione della tipografia.
Nel suo intervento l’on. Turati denunciò le affermazioni dell’on. Federzoni secondo cui la reazione feroce contro i tranvieri in Roma sarebbe stata perfettamente legittima, chiedendo che smentisse recisamente il suo giudizio. Egli riteneva invece che quegli atti di violenza fossero il residuo di una  mentalità di guerra, “quell’arditismo che pericolosamente si propaga e che i nazionalisti hanno acceso”. In merito alla interrogazione sulla distruzione della tipografia dell’ “Avanti”, l’on. Della Seta affermava che tale invasione era sicuramente stata premeditata e che, cosa assolutamente inconcepibile, il custode dei locali della tipografia aveva invocato invano la protezione dei carabinieri e delle guardie regie lì scaglionate, ma queste avevano mantenuto un contegno assolutamente passivo. L’on. Modigliani nel proprio intervento ribadiva la convinzione che la distruzione era stata premeditata e organizzata e che la Camera tutta se non voleva essere moralmente complice doveva unirsi alla protesta. Modigliani continuava dichiarando che in tale violenza si poteva ravvisare il sintomo della disperata resistenza da parte degli arricchiti di guerra, che tentavano di impedire l’approvazione dei provvedimenti all’attenzione del parlamento per lo svolgimento “dell’ inchiesta sugli scandalosi guadagni e gli abusi di ogni genere compiuti durante la guerra e nel dopoguerra”. Poche ore dopo la fine della seduta si riuniva a Montecitorio il Comitato direttivo del gruppo parlamentare socialista che, presa visione di vari telegrammi giunti dall’Italia settentrionale e specialmente da Torino e da Milano, decideva di non proseguire con manifestazioni di protesta e di fare opera di calma e di pacificazione, onde impedire che lo sciopero di Roma si estendesse  in tutta Italia. Ma i ferrovieri di Roma per reazione all’assalto alla tipografia dell’ “Avanti” avevano deciso di rifiutarsi di trasportare tutti i giornali, ad eccezione dell’ “Avanti” e dell’ “Epoca” presso la cui tipografia da quel giorno si sarebbe stampato l’ “Avanti”[2], e avevano organizzato una manifestazione al canto di inni rivoluzionari lo stesso giorno. La reazione non si fece attendere e alla prima aggressione ne seguì un’altra con bastonate ai primi deputati socialisti trovati per strada: a Modigliani, a Della Seta, a Reina.
Come denunciò l’on. Maffi a nome del gruppo parlamentare socialista, nella seduta della Camera il giorno dopo, mentre un gruppo di deputati socialisti si recava  verso la sede del giornale che ospitava l’ “Avanti” si improvvisò una  nuova aggressione, non  ostacolata, bensì protetta dalla guardia regia che culminò nel ferimento dei deputati. Era chiara la copertura delle forze dell’ordine, poiché, come dichiarava sempre Maffi, l’aggressore fu due volte fermato dal deputato Baldini e due volte rilasciato da un ufficiale della guardia regia. Sembrava quindi evidente che “il Governo fosse prigioniero di quelle stesse forze  … che oggi vanno rivelandosi attraverso il movimento di interessi che non vogliono essere lesi dalle leggi fiscali” che sono state  presentate in Parlamento. Anche l’on. Brunelli presente al conflitto sorto davanti alla tipografia dell’ “Epoca” confermava  che, come nell’aggressione alla tipografia dell’ “Avanti”, ancora una volta la forza pubblica non aveva fatto niente per impedire le violenze. A seguito di questi interventi, Giolitti presidente del Consiglio concludeva osservando che “non si doveva accusare tutto un corpo… e  che il Governo avrebbe punito coloro che lo abbiano meritato”.[3]
A Livorno il successo alle elezioni amministrative del partito socialista e la conseguente sconfitta dei partiti dell’ordine fu imputato dai giornali cittadini “Il Telegrafo” e la “Gazzetta Livornese” all’astensionismo e alla mancanza di unità del fronte democratico: “Ed è veramente deplorevole, vergognoso che in una città la quale deve trarre il proprio avvenire dalle industrie, dai commerci, vi sia stata una metà circa della massa elettorale che si è affatto disinteressata del problema…i nomi degli astenuti saranno resi pubblici …”[4]
Mentre, nel commentare l’insuccesso dell’Unione, nelle pagine della “Gazzetta della sera”, si evidenziava come causa del fallimento la mancata attenzione ai problemi delle masse operaie: “Ma il torto più grande dell’Unione Democratica e la ragione più giusta della sua miseranda fine, fu il disinteressamento manifesto ed appena larvato da ambigue dichiarazioni, per i due capitali problemi che travagliano oggi il popolo e che sono i germi funesti di tutte le sofferenze e di tutte le sue ribellioni. Alludiamo al caro-viveri e alla crisi degli alloggi.”[5]
Ma la “Parola dei socialisti” irrideva alle  analisi del voto e alle giustificazioni che i partiti perdenti portavano per sminuire la portata dell’insuccesso: “Ah! Se tutti i nostri fossero andati a votare geme “Il Telegrafo”, avremmo avuto più voti! Che scoperta! Ma chi non vi ha dato il voto, non era dei vostri; quindi non è affatto vero che il “Branco” possa contare, in future lotte, sopra una riserva di voti che oggi sarebbe restata a casa … per far dispetto a se stessa. La verità è che i voti antisocialisti sono quelli lì e non di più…Siete stati battuti perché quattro sbandierate, e otto fascisti che assaltano i comuni nostri, possono darvi l’illusione della forza; ma ormai vi avvicinate al tramonto economico e politico: Voi siete ancora una consorteria senza idee e senza uomini nuovi …”[6]


Paola Ceccotti



[1] Acquisto dei due quotidiani da parte della STET – Soc. Tipografica ed. Toscana – avvenuto il 26 novembre 1918 con l’appoggio di M. Bondi, Giuseppe Cavaciocchi alla direzione politica dei due giornali, in  Di Giovanni M., I periodici livornesi tra dopoguerra e fascismo 1919 – 1943, Quaderni della Labronica n.. 53, dicembre 1991
[2] Discussioni e incidenti alla Camera per i disordini di Roma, Il Telegrafo 22 luglio 1920 Livorno
[3] Retroscena sui disordini di Roma, Il Telegrafo 23 luglio 1920 Livorno
[4] Dopo la battaglia elettorale i motivi dell’insuccesso democratico, “La Gazzetta Livornese”, 9-10 novembre 1920
[5] Le elezioni a Livorno risultato fatale, Gazzetta della sera, 8 novembre 1920 (organo della democrazia cristiana, di ispirazione nazionale patriottica, vedi Di Giovanni M., I periodici livornesi tra dopoguerra e fascismo 1919 – 1943,cit)

[6] Perché furono battuti, La parola dei socialisti, 14 novembre 1920
Livorno il Biennio rosso

L’avvento della amministrazione socialista nel Comune di Livorno è preceduta da un periodo di forti agitazioni di piazza in cui esplodono i contrasti sociali ed economici.
Il 5 luglio 1919 iniziarono i moti del caroviveri quando giunsero le notizie delle agitazioni in corso ad Ancona e Firenze e in Liguria. Il movimento si tradusse nell’assalto e nel saccheggio di negozi dove la merce aveva subito un rilevante aumento di prezzo, sembra che la scintilla fu data dall’assalto ad un negozio di calzature in centro; le scarpe erano tra gli articoli che avevano avuto gli aumenti più considerevoli. I negozianti reagirono chiudendo le botteghe; la Camera del Lavoro intervenne coordinando e regolando la requisizione delle merci, trasportate in posti di raccolta come la stessa CDL, il Mercato, il Teatro S. Marco, per essere poi vendute a prezzi calmierati e fornendo ai negozianti comunicazioni, da affiggere nei loro negozi, che la merce era sotto il controllo della CDL in modo da proteggerli dalla esasperazione popolare; il Comune emanò in tal senso un’ordinanza che stabilì la riduzione dei prezzi del 50 o del 70 per cento.[1]
Mentre i moti per il caroviveri esplosero in maniera spontanea lo sciopero, nello stesso mese di luglio, per la solidarietà del proletariato internazionale con le rivoluzioni di Russia e Ungheria fu  programmato e organizzato a lungo in modo che potesse avere una stessa direzione politica ed essere simultaneo sul territorio nazionale. Quello del 20-21 luglio fu il primo sciopero generale del dopoguerra dal carattere potenzialmente rivoluzionario. Già il 2 luglio il prefetto di Livorno comunicava al Ministero dell’Interno di aver disposto la più accorta vigilanza, chiedendo conferma che l’organico dell’Arma fosse mantenuto al completo, per scongiurare il pericolo di sommossa in una città conosciuta come sovversiva:
 “Devesi poi tenere presente che Livorno conta oltre centocinquemila abitanti tutti rinchiusi nel ristretto territorio della città, che si tratta di una popolazione impulsiva e facile a trascendere, che vi sono oltre ventimila operai, che vi è una Camera di Lavoro in piena balia degli estremisti, che vi è un partito di anarchici numeroso e vi sono associazioni, sodalizi e partiti in contrasto tra loro per fini e tendenze diverse, e che anche all’isola d’Elba, vi sono due centri con masse operaie numerose, uno minerario in quattro comuni dell’isola e l’altro metallurgico negli alti forni di Portoferraio…”[2]
Il 1920 iniziò percorso da fermenti rivoluzionari; a partire da gennaio si susseguirono lo sciopero dei postelegrafonici, le agitazioni dei tranvieri, dei ferrovieri, degli edili, dei barbieri, dei tipografi, dei portuali. Nel mese di maggio si ebbero gli scontri più intensi, prendendo le mosse dai fatti di Viareggio, in cui nel corso di incidenti era stato ucciso un lavoratore da parte dei carabinieri. A seguito di questi avvenimenti il 4 maggio a Livorno ci fu uno sciopero spontaneo che poi prese la forma di una rivolta con il saccheggio delle armerie del centro. I carabinieri allora aprirono il fuoco; rimase ucciso Flaminio Mazzantini un falegname iscritto al partito socialista. La Camera del Lavoro proclamò la sera stessa uno sciopero che si svolse compatto il giorno 6 con grande partecipazione di folla.
Nell’agosto in seguito al mancato accoglimento delle richieste della Fiom, tra cui quella di incrementi salariali per far fronte all’aumento del costo della vita, e alla reazione padronale di chiusura degli stabilimenti, fu decisa l’occupazione delle fabbriche a partire dagli ultimi due giorni di agosto. Il 2 settembre il prefetto scriveva che al Cantiere Orlando e negli stabilimenti Soc. metallurgica, Gallinari, Vetrini, Bossoli, Martelli e Parodi erano state issate le bandiere rosse e  gli operai avevano sospeso il lavoro occupando gli stabilimenti, operai con bracciali rossi facevano guardia agli ingressi. In tutto si trattava di undici stabilimenti occupati, ed altri si sarebbero aggiunti, la quasi totalità di quelli metallurgici livornesi. La bandiera rossa con lo stemma dei soviet fu innalzata sulle fabbriche occupate.[3]
Paola Ceccotti



[1] Queste notizie in L. Tomassini, Il Biennio Rosso,  AA.VV. Le Voci del lavoro
[2] Gab. Prefettura Li nota n. 1877 del 2 luglio 1919
[3] L. Tomassini, op. cit.
Le elezioni amministrative del 7 novembre 1920 a Livorno

Alla fine della prima guerra mondiale l’Italia precipita in una grave crisi economico – sociale; i problemi legati alla smobilitazione che aveva determinato un rapido aumento dei disoccupati, quelli relativi alla svalutazione monetaria che aveva portato ad un generale aumento dei prezzi, furono alla base delle ribellioni popolari. In più la suggestione delle idee portate dalla rivoluzione russa aveva diffuso tra le masse popolari la speranza nella emancipazione dalla povertà.

 Nel 1919 si intensificano le lotte operaie e contadine. E a Livorno, città conosciuta dalle autorità come  “sovversiva”, dove lavorano ventimila operai con una Camera del lavoro presente con la sua organizzazione nei massimi stabilimenti , con un forte partito socialista e un  partito di anarchici diffuso nei sobborghi e pronto alla lotta, furono adottate particolari misure di controllo in difesa dell’ordine pubblico.
All’inizio dell’estate scoppiavano i moti contro il carovita con saccheggi nei negozi e accuse ai bottegai di occultare le merci per speculare sulla fame del popolo; si apriva un periodo spontaneo di ribellione passato alla storia come “biennio rosso”. A Livorno furono prese misure perché l’organico delle forze di polizia fosse mantenuto al completo in modo da fronteggiare gli scioperi previsti nel mese di luglio. Contemporaneamente si formavano alleanze per contrastare i movimenti  popolari. Già nel gennaio del 1919 si costituiva un primo nucleo organizzativo formato in particolare da ex combattenti sotto la guida di Arturo Torelli sottotenente degli Arditi e di  Alessandro Burnside tenente di fanteria, che diventerà segretario politico dei fasci di combattimento di Livorno. Il 10 marzo del 1919 si riunivano invece in un magazzino di proprietà dell’onorevole Salvatore Orlando una settantina di liberali e un’altra ventina di persone che costituivano una nuova formazione: il “Fascio Liberale”; presiedeva l’adunanza il prof. Targioni Tozzetti che si appellava all’impegno dei reduci dalle trincee.
Alla fine del 1919 si verificò una evoluzione dal punto di vista strettamente sindacale con il cementarsi di più stretti legami tra le diverse categorie dei lavoratori. Nel dicembre, in seguito al licenziamento di tre impiegati al cantiere navale, ci fu per la prima volta uno sciopero del personale impiegatizio e tecnico, da mettersi in relazione al maggior potere che il partito socialista aveva assunto nella categoria.  Le elezioni amministrative del 1920 si svolsero in un clima di fermento e ribellione, tra manifestazioni di piazza e scioperi di varie categorie; da gennaio si susseguirono quello dei postelegrafonici,  le agitazioni dei tranvieri, dei ferrovieri, degli edili, dei barbieri, dei tipografi, dei portuali.
Le elezioni amministrative del 7 novembre del 1920 confermarono il successo che i socialisti avevano ottenuto l’anno prima nelle politiche, mentre risultarono perdenti le istanze delle forze antisocialiste riunite nella “Unione Democratica”.
La vittoria del Partito Socialista fu salutata dalla città operaia con un corteo numeroso che sfilò il giorno dopo per le vie del centro, passando da piazza Vittorio Emanuele,  gli scali Cialdini, fra due ali di popolo al canto di Bandiera Rossa, dell’Inno dei lavoratori e dell’Internazionale.
Ma quello che sembrava il cammino inarrestabile della storia nel segno del progresso e dell’umanità sarebbe stato presto interrotto, e già il 10 novembre si verificò il primo tentativo di rovesciare con la forza l’amministrazione appena eletta.



Paola Ceccotti