A proposito del voto alle donne
Nel 1920 il disegno di legge in
discussione alla Camera sulla legge elettorale (Modifiche alle norme concernenti le elezioni amministrative) aveva
previsto il diritto di voto amministrativo alle donne, in particolare
caldeggiato dai partiti socialisti e popolari.
Ma per il precipitare della situazione nel paese, con scontri, eccidi,
assalti alle istituzioni, Giolitti decise di sciogliere la Camera e di indire
nuove elezioni. E con ciò il provvedimento sulla nuova legge elettorale e la
previsione di voto alle donne cadde e non passò all’esame del senato, benché
avesse avuto una approvazione quasi totale alla Camera con 240 voti a favore e
soltanto 10 contrari.
All’indomani dell’approvazione
alla Camera del disegno di legge Bianca Flury Nencini, giornalista e
scrittrice, salutava sulla Gazzetta Livornese la conquista del diritto politico
a dispetto delle posizioni avverse di quegli uomini – categoria generale non
meglio identificata politicamente - che vi avrebbero visto la distruzione della
femminilità, paventando la fine della tranquilla distinzione di ruoli
all’interno della famiglia:
(Gli uomini) “…Hanno pianto le ultime lacrime su quella
famosa femminilità che riceve dalla scheda l’ultimo colpo di grazia; altri più
pratici hanno pensato con mesto
rimpianto al pranzo compromesso da un comizio elettorale o a qualche famigliare
ricatto della moglie che agiterà, in estrema difesa una lista da votare contro
quella sostenuta dal marito. E hanno già previsto i gravi disordini che
terranno dietro a una mattinata perduta a far la coda davanti a una sezione
elettorale, mentre a casa il soffritto brucia e il marmocchio strepita
reclamando la pappa mattutina.
Altri, mirando più lungi del pranzo ritardato e del soffritto arrostito,
hanno preveduto il grave disordine che al partito dell’ordine porterà il diritto ora acquisito della donna,
la quale è immatura ad esercitarlo e diverrà strumento cieco di partiti, facile
preda del primo che saprà farle vedere lucciole per lanterne.”[1]
Tratteggiava così la questione
del voto come fosse una semplice schermaglia tra i sessi, mettendo in evidenza
i possibili contrasti che sarebbero potuti nascere in famiglia, ma allo stesso
tempo raccomandava alle donne di non lasciarsi attirare dalla propaganda di
quei partiti che avrebbero potuto approfittarsi della loro credulità e
impreparazione, con sicuro riferimento ai partiti popolare e soprattutto
socialista che avevano tenuto conto nei loro programmi dell’emancipazione
femminile. Per questo il diritto di voto (amministrativo) ottenuto – perché così pareva certo in quel momento – doveva ricevere
particolare attenzione ed una adeguata formazione che garantisse il suo
esercizio in autonomia.
“Occorre dunque prima di tutto vincere l’indifferenza della grande
massa femminile perché la funzione del voto quando sarà da noi esercitata,
abbia un significato morale oltre un valore numerico di cui profitterà il
partito più organizzato.
Dovremo fare ora quel lavoro che doveva logicamente procedere la
concessione del diritto preparando la donna ad esercitarlo con coscienza per la
sua dignità. Perché questo o quel partito
non conti ciecamente su di noi …
Si sa che i partiti di avanguardia hanno già sotto mano questa forza
nuova da mettere in valore per il trionfo della loro causa. E alcuni credono
che la educazione della donna alla nuova funzione del voto consista nella
organizzazione per quei partiti che fin qui la trascurarono. Ma non è
questo ciò che per l’elevazione morale
della donna deve cercarsi. La disciplina di partito è una bella conquista per
il partito che riescì ad ottenerla; ma non deve essere fine a se stessa e non
innalza di un grado il livello morale dell’individuo.
Noi vogliamo la donna veramente cosciente di quello che, esercitando il
diritto di voto, dimostra di valere: la desideriamo – qualunque fede professi –
con una personalità propria e con la facoltà di pensare col proprio cervello.…”[2]
Espressione di quel mondo
borghese che aveva aderito alle idee nazionaliste contro l’espansione della
dottrina socialista, la Flury Nencini come altre figure rappresentative dei
movimenti di emancipazione femminile (non ultima Teresa Labriola figlia del
filosofo Antonio, propagandista di idee nel campo della emancipazione
femminile, nonché giurista, che aderì a posizioni nazionaliste e poi fasciste) subì
il fascino di Mussolini, di un regime che esaltò la donna nella sua funzione materna ponendola
al centro del programma di restaurazione della famiglia e di sviluppo della
natalità facendone il riferimento di eventi significativi, anche se fu incapace
di interrompere un processo di sviluppo della identità femminile, che continuò
a rivolgere la sua intelligenza al di là delle pareti domestiche e che si
concretizzò poi nella conquista dei diritti politici nel secondo dopoguerra. Il
richiamo di Mussolini fu rivolto proprio verso quella parte della popolazione
di estrazione borghese che aveva fornito il consenso alla sua affermazione,
esso fondava la sua attrazione sui valori ereditati dal Risorgimento, l’ideale
di patria, di unità nazionale, la
famiglia in cui ciascuno è impegnato a porgere il servizio allo stato
differentemente secondo la sua posizione e identità di genere.
Con l’inasprirsi della
conflittualità sociale a livello nazionale, con l’assalto alle istituzioni da
parte delle squadre fasciste si generò una situazione di estrema crisi che
portò Giolitti il 7 aprile alla decisione di sciogliere la Camera, motivando
tale scelta con la necessità di tenere nuove elezioni per far partecipare al
voto la popolazione dei territori annessi di recente, e per il fatto che la Camera
uscita da quelle del 1919 non corrispondeva più alla realtà del paese. Le elezioni vennero indette per il 15 maggio.
Giolitti sperava di ottenere dal risultato elettorale una maggiore
rappresentanza a scapito dei partiti socialista e popolare. E in tal senso favorì con il blocco nazionale – c. d.
“listone” – l’alleanza tra liberali e fascisti, con lo scopo di riuscire a coinvolgere
questi ultimi nel sistema parlamentare. Egli riteneva di poter servirsi del
fascismo per reprimere l’estremismo socialista, creando così le condizioni per
un rafforzamento dello stato liberale.
La campagna elettorale si svolse
in un clima di terrore. Dall’Emilia lo squadrismo fascista al servizio degli
agrari si diffuse in Toscana e in Umbria. Un po’ in tutta l’Italia centro
settentrionale le squadre d’azione fasciste presero d’assalto le sedi dei
sindacati e del partito socialista; esse erano formate prevalentemente di
giovani e medio piccolo borghesi, sottoproletari e avventurieri veri e propri. Matteotti pubblicò in merito nel 1921 l’ “Inchiesta
socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, sulle violenze dei fascisti a base di manganello e
olio di ricino durante la campagna elettorale di quell’ anno.
Quando il fascismo si insediò
nelle stanze delle istituzioni sarà proprio la F. Nencini, con la sua attività
di giornalista e scrittrice, a farsi portavoce
oltre che delle attività e manifestazioni del comune di Livorno fascista, di quelle più
precisamente femminili, con un continuo appello ai valori della famiglia,
pubblicando articoli centrati sulla valorizzazione della figura della donna,
sposa e madre, elemento centrale e caratterizzante del nuovo ordine che il
fascismo aveva ristabilito, contro i modelli d’oltralpe e quelli proposti nei
programmi socialisti. Principi di cui la stessa si era fatta portatrice già
anni prima. Nella Conferenza su “Le donne
nella guerra” organizzata nel febbraio 1917 per conto del Comitato di
Livorno Società Nazionale Dante Alighieri per la sovvenzione alla Casa dei
Bambini la F. Nencini che ne era
fondatrice e direttrice esprimeva le idee di un femminismo più vicino ad un comitato
di beneficenza che all’associazionismo femminile in lotta per i diritti civili
e del lavoro. Precisava nel suo
intervento che la marionetta della femminista era stata abbandonata,
dimenticata tra i vecchiumi di un passato che pareva ormai lontanissimo nel
tempo, una peraltro “detestata marionetta”.
E particolarmente detestata perché essa non era “Italiana”, perché la donna latina
ha troppo senso della misura per certi eccessi. “La femminilità ha ucciso il femminismo”; ed ecco qual è a suo
avviso il ruolo della donna italiana così come dimostrano a suo parere la
storia e la leggenda: “sempre accanto al
guerriero, sia pure in scorcio o nell’ombra, la donna. Soave figura di
consolatrice o di trepida aspettante presso una culla o ad un focolare deserto
china la testa alla ineluttabile necessità, che insidia il suo piccolo mondo.”[3] Ma la
stessa rimarcava che il coraggio femminile ha un valore se è collettivo se è
condiviso nella moltitudine delle donne, così la donna italiana che nel momento
della guerra e del bisogno, per via della grave situazione, era uscita dalla
solitudine della sua individualità di madre e casalinga per affrontare il
problema economico e si era misurata con professioni nuove, anche di tipo intellettuale.
Ma triste conseguenza era poi diventata così inquieta e disdegnosa delle
piccole cure domestiche, desiderosa di misurarsi con l’uomo, di gareggiare con
lui nella conquista delle professioni, tanto da essersi “mascolinizzata”,
prendendo molti dei difetti dell’uomo. Il suggerimento era quindi quello di
ritornare al ruolo che le è proprio: il lavoro di cura. E’ in questo ambito che
intravede la rinascita di una donna nuova con il ritorno all’antico, che si fa
grande nelle forme moderne della beneficenza. L’ufficio a cui è chiamata la
donna è quello che più si addice alla natura femminile: “quello che la mette in contatto col dolore più vivo e avvicina le
classi sociali più lontane tra loro, e fa di tutte le forze della nazione – del
valore, della pietà, della grazia - una forza sola: dell’ufficio di infermiera…
e quando la donna non ha potuto farsi infermiera è stata visitatrice di ospedali”.
Alla fine del suo intervento chiariva
meglio il suo pensiero intorno alle giuste aspirazioni e funzioni proprie della
donna:
“E che ci darete che valga il pianto di una madre? Il voto? Lo ebbero
anche gli analfabeti! L’indipendenza dalla autorizzazione maritale per disporre
dei nostri beni? Ognuno che non sia del tutto deficiente dispone dei propri
beni! La ricerca di paternità? Non giova soltanto alla donna. Se queste concessioni
verranno noi ci rallegreremo del mutato concetto sulla nostra mentalità che vi
avrà deciso a riconoscerli diritti nostri. Ma noi non lavorammo per queste
meschine conquiste… Una sola conquista vagheggiammo: la vittoria d’Italia. Oggi
collaboratrice preziose dell’uomo in tutti i campi dell’attività umana e domani
– se altro da noi non si chieda – soltanto donne – regine della nostra casa”[4]
C’è in queste considerazioni già tratteggiata
la figura della donna fascista orientata verso la nobile attività assistenziale
- educativa per il bene della nazione, una espansione all’esterno delle
caratteristiche genetiche di cura e della sua propensione a farsi amorevole
assistente del “guerriero” e della di lui prole. Una figura che non travalica
lo spazio proprio del maschile, di cui al massimo può farsene carico, come
straordinaria supplenza, in momenti di particolare emergenza, tornando
prontamente alle occupazioni costitutive della femminilità; è nella famiglia
che la donna adempie la sua funzione sociale, e non è donna chi non è madre, è
il sentimento, e non la ragione, la molla della sua azione.
Tornando alla elezioni del 1921
la F. Nencini fu attiva in campagna elettorale, e organizzatrice di un patriottico comizio
dell’Alleanza Femminile di cui presiedette i lavori al “Rossigni” alla presenza
di donne e uomini fascisti e nazionalisti[5]. Nel
proseguo della sua attività di scrittrice e giornalista sarà presenza costante
e rappresentativa del mondo femminile fascista livornese e in genere di quel
partito che dominerà per venti anni la vita italiana seguendone e diffondendone
le attività e le manifestazioni più rilevanti. Ma proprio il suo attivismo
intellettuale, l’impegno puntuale e continuativo, come si può osservare, mal si
accorda al suo appello alla vocazione naturale della donna come pilastro della
famiglia, è più invece la dimostrazione di come la donna potesse essere altro
dallo stereotipo che aveva proposto.
Dopo le elezioni del 1921 la
legge sul voto venne nuovamente presentata e Mussolini ne fu cauto e poco
convinto portavoce andando incontro alla
richiesta di numerosi fasci femminili, e senza credere realmente al giusto
riconoscimento dei diritti civili e politici delle donne in risposta alle
preoccupazione e alle manifestazioni contrarie di esponenti del suo partito
affermava cinicamente: “Qualcuno crede
che l’estensione del voto alle donne provocherà delle catastrofi. Lo nego. Non
ne ha provocato nemmeno, in fin dei conti, quello maschile, perché su undici
milioni che dovrebbero esercitare il loro diritto, sei milioni non ci pensano
nemmeno. Così accadrà delle donne. La metà
forse vorrà esercitare il proprio diritto al voto.”[6]
La legge n. 2125 del 22 novembre
1925 relativa alla “Ammissione delle donne all’elettorato amministrativo”
passò, ma essa era non solo relativa alle sole elezioni amministrative e non
politiche ma ulteriormente ridotta rispetto ai precedenti progetti perché
riservata a poche categorie di donne. Potevano votare a richiesta coloro che
avessero compiuto i 25 anni e fossero decorate al valor civile o militare,
benemerite della sanità pubblica, o per altre attività prestate in occasione di
pubbliche calamità, o fossero madri e vedove di caduti in guerra purché avessero la patria potestà o la
tutela dei figli, sapessero leggere e scrivere e fossero contribuenti nel
comune in cui chiedevano di votare di almeno 100 lire annue. I comuni
compilarono gli elenchi elettorali femminili che vennero esposti all’Albo
Pretorio. Ma il 12 luglio 1926 venne diramato con un telegramma dal Ministero
dell’Interno a tutti i prefetti la comunicazione di sospensione delle elezioni.
Già con legge n. 237 del 4 febbraio 1926 era stata istituita la figura del
podestà e la consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente ai
5000 abitanti. Con R.d. n. 1910 del 3 settembre 1926 tali norme vennero estese
a tutti i Comuni del regno. In base alle nuove disposizioni il podestà veniva
nominato con decreto reale, durava in carica 5 anni e poteva essere sempre
riconfermato, i consultori facenti parte della consulta municipale erano
nominati con decreto prefettizio, direttamente per un terzo e per due terzi su
designazione degli enti economici, dei sindacati, delle associazioni locali.
Non solo finiva così la speranza delle donne di ottenere i diritti politici, ma
si annullavano le prerogative democratiche e la strada alla dittatura era ormai
aperta.
Paola Ceccotti
[1] Dopo il voto alle donne, di Bianca Flury Nencini Gazzetta Livornese
del 26/27 novembre 1920
[2] Ivi
[3] “Le donne nella guerra”. Conferenza di Bianca Flury Nencini,
febbraio 1917
[4] Ivi
[5] Gazzetta Livornese, 14
maggio 1921
[6] In I. Vaccai, La donna nel
ventennio fascista 1919 – 1943, ed. Vangelista, 1978, pag. 84