La prima seduta del Consiglio Comunale
uscito dalle elezioni del 1920
Il 22 novembre 1920 alle ore
18.00 si insediò formalmente il nuovo Consiglio Comunale uscito dalle elezioni
del 7 novembre, in un clima di accesa partecipazione da parte del pubblico
intervenuto.
Il regio commissario dott. Enrico
Cavalieri, dopo aver dichiarato aperta e valida la seduta, dava lettura della
propria gestione e quindi dichiarava insediato in nome di sua maestà il re il
Consiglio Comunale. Il pubblico, come registrano gli atti municipali, era
numerosissimo e chiassoso. Il consigliere anziano, on. Giuseppe Emanuele
Modigliani assumeva la presidenza dell’assemblea, e pronunciava quindi le
seguenti parole: Nessuno troverà strano
che nell’assumere per pochi momenti l’ufficio che dalla sorte delle urne mi è
attribuito, io dica qual è il pensiero di gioia e soddisfazione con cui il
partito socialista e le organizzazioni operaie accettano il loro ufficio.
Questa che secondo l’evoluzione storica dovrebbe essere la casa del popolo, è
stata sempre la casa della classe che ha tenuto fino a qui il potere. Oggi
invece è la casa della classe che fu governata e che non vuole essere più
governata ma che invece governerà …[1]
In quella prima seduta dopo gli adempimenti di
legge – appello nominale e proclamazione degli eletti – era iscritto come primo
punto dell’ordine del giorno il “riconoscimento della Repubblica comunista
federativa dei consigli di Russia”, a cui l’on. Modigliani rivolgeva un particolare saluto, ricordando
che quella grande rivoluzione rappresentava il primo e più titanico sforzo del
proletariato contro la classe capitalistica. Successivamente Modigliani poneva
all’attenzione dell’assemblea i fatti del 10 novembre e i tentativi di prendere
con la forza il Comune: In questo momento
non bisogna dimenticare che anche Livorno or sono pochi giorni fu oggetto del
tentativo più insano che da qualche tempo si sta agitando da Verona a Bologna
dove faziose minoranze sognano di sopprimere le funzioni del Comune socialista,
ma sono minoranze e saranno schiacciate ora e sempre.[2]
Quindi venivano messi in
votazione due ordini del giorno; il primo di solidarietà alla rivoluzione russa
e verso tutti coloro che come Eugenio Debes ed Errico Malatesta scontavano nelle carceri reati di pensiero, il
secondo nel quale, richiamando i fatti del 10 novembre, il Consiglio Comunale
assumeva l’impegno della difesa del Comune ad ogni costo, contro i faziosi e i
violenti.
Il cons. Mondolfi interveniva contro
il cons. Corcos che aveva richiesto il rispetto del pensiero della minoranza,
per ribadire che nel paese non erano i socialisti ad abusare dei diritti o a
fomentare disordini. E riferendosi ai fatti del 10 novembre ricordava che i
fascisti avevano voluto imporre il levarsi di cappello ad una bandiera che non
rappresenta la nazione ma una classe, quella che ha voluto la guerra. Mondolfi
concludeva così il suo intervento: Con
ciò noi non intendiamo di contestare alla borghesia il diritto di difendersi,
ma non si affermi che in Italia c’è la libertà, perché questa è la libertà
della borghesia che adopera ogni arte per soffocare i suoi avversari. Ma siate
pur sicuri che la classe proletaria saprà trovare i mezzi atti ad opporsi[3]. (Applausi
vivissimi da parte della maggioranza e del pubblico). Tutti e due gli ordini
del giorni venivano approvati dalla maggioranza.
Il Consiglio Comunale provvedeva
quindi alla elezione del Sindaco nella persona del prof. Uberto Mondolfi,
eletto con 47 voti su 58 (Mondolfi 47, Minghi 1, Bianche 10); e subito dopo a
quella degli Assessori senza la partecipazione della minoranza che dichiarava
di astenersi. Erano proclamati eletti: Adolfo Minghi, Assessore anziano;
Assessori effettivi: Nello Assum, Giuseppe Bacci, Armando Bartorelli, Giuseppe
Cardon, Oreste Marcaccini, Francesco Mario Stefanini, Giorgio Urbani; Assessori
supplenti: Ezio Felli, Aurelio Del Lucchese, Ilio Barontini, Riccardo Marchi.
Il mese di novembre del 1920 è già
anticipazione di quegli eventi che si intensificheranno precipitando nella dissoluzione
delle istituzioni democratiche.
Il 17 novembre e quindi a sette
giorni di distanza dalla manifestazione patriottica si era costituito nella
sede dell’associazione Garibaldina il primo fascio di combattimento di Livorno,
“con un segretario improvvisato e quattro
consiglieri”[4]; più precisamente un
bidello di scuole elementari, un portuale, due negozianti; esso veniva accolto almeno
inizialmente con qualche diffidenza dalla Unione democratica livornese uscita
sconfitta dalle elezioni.
Era la risposta ai fatti del 10
novembre, alle reazioni della cittadinanza contro i tentativi di imporre con la violenza un nuovo “ordine”.
Come si afferma in successivi articoli del regime: a seguito dei tafferugli con i “leninisti”, nella sede dei reduci
garibaldini in via Reale al n. 5 si formò il primo nucleo di fascisti
livornesi, sede da cui partirono le sempre più agguerrite imprese
squadristiche.[5]
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