Il 1920 nei giornali
Le amministrative del 1920
avevano visto la vittoria socialista sulle forze della borghesia cittadina
unite nella Unione Democratica che aveva fatto della battaglia al bolscevismo
la propria bandiera, e del Partito Popolare che aveva partecipato con proprie
liste con un programma che pur non prefigurando uno sconvolgimento sociale
puntava ad un miglioramento delle condizioni delle classi umili, con
particolare attenzione all’assistenza sanitaria, all’istruzione, al problema
della casa.
I giornali “Il Telegrafo” e la
“Gazzetta Livornese” avevano fatto una grossa campagna di stampa a favore della Unione Democratica. La
“Gazzetta Livornese” era stato il primo quotidiano importante di Livorno, dal
1919 una sorta di edizione pomeridiana de “Il Telegrafo” che divenne il foglio
principale della città, mentre la “Gazzetta” si differenziò per una maggiore
attenzione alla realtà locale. Le due testate passeranno ad un sostegno pieno
al fascismo sin dal 1921[1], da
una iniziale linea politica conforme a quel “Fascio Liberale” – “Costituzionale”
costituitosi il 10 marzo del 1919 sotto la direzione del prof. Giovanni
Targioni Tozzetti, raggruppamento conservatore legalitario che con il
progressivo sviluppo del sentimento antibolscevico dei suoi componenti aderirà
a posizioni più intransigenti e antisocialiste.
Il successo dei socialisti si era
affermato in un clima di guerra civile a livello nazionale con l’aggressione
alla Tipografia dell’ “Avanti”. Nella seduta del 21 luglio 1920 alla Camera fu
discussa la questione degli incidenti verificatisi a Roma in seguito agli
scioperi dei tranvieri e quella della distruzione della tipografia.
Nel suo intervento l’on. Turati denunciò
le affermazioni dell’on. Federzoni secondo cui la reazione feroce contro i
tranvieri in Roma sarebbe stata perfettamente legittima, chiedendo che
smentisse recisamente il suo giudizio. Egli riteneva invece che quegli atti di
violenza fossero il residuo di una mentalità di guerra, “quell’arditismo che
pericolosamente si propaga e che i nazionalisti hanno acceso”. In merito alla interrogazione
sulla distruzione della tipografia dell’ “Avanti”, l’on. Della Seta affermava che
tale invasione era sicuramente stata premeditata e che, cosa assolutamente
inconcepibile, il custode dei locali della tipografia aveva invocato invano la
protezione dei carabinieri e delle guardie regie lì scaglionate, ma queste
avevano mantenuto un contegno assolutamente passivo. L’on. Modigliani nel
proprio intervento ribadiva la convinzione che la distruzione era stata premeditata
e organizzata e che la Camera tutta se non voleva essere moralmente complice doveva
unirsi alla protesta. Modigliani continuava dichiarando che in tale violenza si
poteva ravvisare il sintomo della disperata resistenza da parte degli
arricchiti di guerra, che tentavano di impedire l’approvazione dei
provvedimenti all’attenzione del parlamento per lo svolgimento “dell’ inchiesta
sugli scandalosi guadagni e gli abusi di ogni genere compiuti durante la guerra
e nel dopoguerra”. Poche ore dopo la fine della seduta si riuniva a
Montecitorio il Comitato direttivo del gruppo parlamentare socialista che, presa
visione di vari telegrammi giunti dall’Italia settentrionale e specialmente da
Torino e da Milano, decideva di non proseguire con manifestazioni di protesta e
di fare opera di calma e di pacificazione, onde impedire che lo sciopero di
Roma si estendesse in tutta Italia. Ma i
ferrovieri di Roma per reazione all’assalto alla tipografia dell’ “Avanti” avevano
deciso di rifiutarsi di trasportare tutti i giornali, ad eccezione dell’
“Avanti” e dell’ “Epoca” presso la cui tipografia da quel giorno si sarebbe
stampato l’ “Avanti”[2], e avevano
organizzato una manifestazione al canto di inni rivoluzionari lo stesso giorno.
La reazione non si fece attendere e alla prima aggressione ne seguì un’altra
con bastonate ai primi deputati socialisti trovati per strada: a Modigliani, a
Della Seta, a Reina.
Come denunciò l’on. Maffi a nome
del gruppo parlamentare socialista, nella seduta della Camera il giorno dopo,
mentre un gruppo di deputati socialisti si recava verso la sede del giornale che ospitava l’
“Avanti” si improvvisò una nuova aggressione,
non ostacolata, bensì protetta dalla
guardia regia che culminò nel ferimento dei deputati. Era chiara la copertura delle
forze dell’ordine, poiché, come dichiarava sempre Maffi, l’aggressore fu due
volte fermato dal deputato Baldini e due volte rilasciato da un ufficiale della
guardia regia. Sembrava quindi evidente che “il Governo fosse prigioniero di
quelle stesse forze … che oggi vanno
rivelandosi attraverso il movimento di interessi che non vogliono essere lesi
dalle leggi fiscali” che sono state
presentate in Parlamento. Anche l’on. Brunelli presente al conflitto
sorto davanti alla tipografia dell’ “Epoca” confermava che, come nell’aggressione alla tipografia
dell’ “Avanti”, ancora una volta la forza pubblica non aveva fatto niente per
impedire le violenze. A seguito di questi interventi, Giolitti presidente del
Consiglio concludeva osservando che “non si doveva accusare tutto un corpo… e che il Governo avrebbe punito coloro che lo
abbiano meritato”.[3]
A Livorno il successo alle
elezioni amministrative del partito socialista e la conseguente sconfitta dei
partiti dell’ordine fu imputato dai giornali cittadini “Il Telegrafo” e la
“Gazzetta Livornese” all’astensionismo e alla mancanza di unità del fronte
democratico: “Ed è veramente deplorevole, vergognoso che in una città la quale
deve trarre il proprio avvenire dalle industrie, dai commerci, vi sia stata una
metà circa della massa elettorale che si è affatto disinteressata del
problema…i nomi degli astenuti saranno resi pubblici …”[4]
Mentre, nel commentare l’insuccesso
dell’Unione, nelle pagine della “Gazzetta della sera”, si evidenziava come causa
del fallimento la mancata attenzione ai problemi delle masse operaie: “Ma il
torto più grande dell’Unione Democratica e la ragione più giusta della sua
miseranda fine, fu il disinteressamento manifesto ed appena larvato da ambigue
dichiarazioni, per i due capitali problemi che travagliano oggi il popolo e che
sono i germi funesti di tutte le sofferenze e di tutte le sue ribellioni.
Alludiamo al caro-viveri e alla crisi degli alloggi.”[5]
Ma la “Parola dei socialisti”
irrideva alle analisi del voto e alle giustificazioni
che i partiti perdenti portavano per sminuire la portata dell’insuccesso: “Ah!
Se tutti i nostri fossero andati a votare geme “Il Telegrafo”, avremmo avuto
più voti! Che scoperta! Ma chi non vi ha dato il voto, non era dei vostri;
quindi non è affatto vero che il “Branco” possa contare, in future lotte, sopra
una riserva di voti che oggi sarebbe restata a casa … per far dispetto a se
stessa. La verità è che i voti antisocialisti sono quelli lì e non di più…Siete
stati battuti perché quattro sbandierate, e otto fascisti che assaltano i
comuni nostri, possono darvi l’illusione della forza; ma ormai vi avvicinate al
tramonto economico e politico: Voi siete ancora una consorteria senza idee e
senza uomini nuovi …”[6]
Paola Ceccotti
[1]
Acquisto dei due quotidiani da parte della STET – Soc. Tipografica ed. Toscana
– avvenuto il 26 novembre 1918 con l’appoggio di M. Bondi, Giuseppe Cavaciocchi
alla direzione politica dei due giornali, in
Di Giovanni M., I periodici
livornesi tra dopoguerra e fascismo 1919 – 1943, Quaderni della Labronica
n.. 53, dicembre 1991
[2] Discussioni e incidenti alla Camera per i
disordini di Roma, Il Telegrafo 22 luglio 1920 Livorno
[3] Retroscena sui disordini di Roma, Il
Telegrafo 23 luglio 1920 Livorno
[4] Dopo la battaglia elettorale i motivi
dell’insuccesso democratico, “La Gazzetta Livornese”, 9-10 novembre 1920
[5] Le elezioni a Livorno risultato fatale,
Gazzetta della sera, 8 novembre 1920 (organo della democrazia cristiana, di
ispirazione nazionale patriottica, vedi Di Giovanni M., I periodici livornesi tra dopoguerra e fascismo 1919 – 1943,cit)
[6] Perché furono battuti, La parola dei
socialisti, 14 novembre 1920
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