Livorno il Biennio rosso
L’avvento della amministrazione
socialista nel Comune di Livorno è preceduta da un periodo di forti agitazioni
di piazza in cui esplodono i contrasti sociali ed economici.
Il 5 luglio 1919 iniziarono i moti
del caroviveri quando giunsero le notizie delle agitazioni in corso ad Ancona e
Firenze e in Liguria. Il movimento si tradusse nell’assalto e nel saccheggio di
negozi dove la merce aveva subito un rilevante aumento di prezzo, sembra che la
scintilla fu data dall’assalto ad un negozio di calzature in centro; le scarpe
erano tra gli articoli che avevano avuto gli aumenti più considerevoli. I
negozianti reagirono chiudendo le botteghe; la Camera del Lavoro intervenne
coordinando e regolando la requisizione delle merci, trasportate in posti di
raccolta come la stessa CDL, il Mercato, il Teatro S. Marco, per essere poi
vendute a prezzi calmierati e fornendo ai negozianti comunicazioni, da
affiggere nei loro negozi, che la merce era sotto il controllo della CDL in
modo da proteggerli dalla esasperazione popolare; il Comune emanò in tal senso un’ordinanza
che stabilì la riduzione dei prezzi del 50 o del 70 per cento.[1]
Mentre i moti per il caroviveri esplosero
in maniera spontanea lo sciopero, nello stesso mese di luglio, per la
solidarietà del proletariato internazionale con le rivoluzioni di Russia e
Ungheria fu programmato e organizzato a
lungo in modo che potesse avere una stessa direzione politica ed essere simultaneo
sul territorio nazionale. Quello del 20-21 luglio fu il primo sciopero generale
del dopoguerra dal carattere potenzialmente rivoluzionario. Già il 2 luglio il
prefetto di Livorno comunicava al Ministero dell’Interno di aver disposto la
più accorta vigilanza, chiedendo conferma che l’organico dell’Arma fosse
mantenuto al completo, per scongiurare il pericolo di sommossa in una città conosciuta
come sovversiva:
“Devesi poi tenere presente che Livorno conta
oltre centocinquemila abitanti tutti rinchiusi nel ristretto territorio della
città, che si tratta di una popolazione impulsiva e facile a trascendere, che
vi sono oltre ventimila operai, che vi è una Camera di Lavoro in piena balia
degli estremisti, che vi è un partito di anarchici numeroso e vi sono
associazioni, sodalizi e partiti in contrasto tra loro per fini e tendenze
diverse, e che anche all’isola d’Elba, vi sono due centri con masse operaie
numerose, uno minerario in quattro comuni dell’isola e l’altro metallurgico
negli alti forni di Portoferraio…”[2]
Il 1920 iniziò percorso da
fermenti rivoluzionari; a partire da gennaio si susseguirono lo sciopero dei
postelegrafonici, le agitazioni dei tranvieri, dei ferrovieri, degli edili, dei
barbieri, dei tipografi, dei portuali. Nel mese di maggio si ebbero gli scontri
più intensi, prendendo le mosse dai fatti di Viareggio, in cui nel corso di
incidenti era stato ucciso un lavoratore da parte dei carabinieri. A seguito di
questi avvenimenti il 4 maggio a Livorno ci fu uno sciopero spontaneo che poi
prese la forma di una rivolta con il saccheggio delle armerie del centro. I
carabinieri allora aprirono il fuoco; rimase ucciso Flaminio Mazzantini un
falegname iscritto al partito socialista. La Camera del Lavoro proclamò la sera
stessa uno sciopero che si svolse compatto il giorno 6 con grande partecipazione
di folla.
Nell’agosto in seguito al mancato
accoglimento delle richieste della Fiom, tra cui quella di incrementi salariali
per far fronte all’aumento del costo della vita, e alla reazione padronale di
chiusura degli stabilimenti, fu decisa l’occupazione delle fabbriche a partire
dagli ultimi due giorni di agosto. Il 2 settembre il prefetto scriveva che al
Cantiere Orlando e negli stabilimenti Soc. metallurgica, Gallinari, Vetrini,
Bossoli, Martelli e Parodi erano state issate le bandiere rosse e gli operai avevano sospeso il lavoro
occupando gli stabilimenti, operai con bracciali rossi facevano guardia agli
ingressi. In tutto si trattava di undici stabilimenti occupati, ed altri si
sarebbero aggiunti, la quasi totalità di quelli metallurgici livornesi. La
bandiera rossa con lo stemma dei soviet fu innalzata sulle fabbriche occupate.[3]
Paola Ceccotti
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